Aborto: il falso mito della libertà delle donne

Aborto: il falso mito della libertà delle donne

Ben venga, dunque, il dibattito sui manifesti di CitizenGo (recanti la frase: “L’aborto è la prima causa di femminicidio nel mondo. #stopaborto”), se aiutano a riflettere, sia pur con metodi ‘scioccanti’, sulle verità scomode dell’aborto. Si potrà discutere certamente dell’impatto emotivo che quei manifesti avrebbero su donne che hanno abortito ma ciò su cui non si può questionare è il diritto a manifestare liberamente il pensiero pro-life da parte di CitizenGo, i cui messaggi, peraltro, non sono affatto offensivi, né contrari in toto allo spirito della legge 194 che, almeno sul piano teorico, dovrebbe offrire una chance anche per le donne che non vogliono abortire.

Una conquista della modernità? Discutiamone… Curiosamente, proprio a cavallo del quarantennale, nei giorni in cui molte femministe, per lo più attempate, celebravano quella che loro stesse considerano una conquista civile, un drammatico episodio di cronaca sparigliava le carte in tavola, facendo vacillare le certezze di alcuni pro-choice. Farah, 19enne studentessa pakistana, residente a Verona, è stata fatta rientrare con l’inganno nel proprio paese e lì costretta a interrompere la propria gravidanza. Un dato ignorato dalla gran parte dell’opinione pubblica occidentale e anche da un ampio numero di osservatori e intellettuali è che nei paesi islamici, l’aborto è largamente diffuso, in modo particolare ai danni delle nasciture femmine. In Pakistan, dal 2000 al 2014, sono stati compiuti oltre 1,2 milioni di aborti selettivi in base al sesso; in Azerbaijan e in Tunisia il rapporto tra nati vivi è rispettivamente di 116 maschi ogni 100 femmine e di 107 maschi ogni 100 femmine (1). Numeri che sembrano davvero andare incontro alla tesi del manifesto censurato di CitizenGo ma che, con i dovuti distinguo, ci ricordano anche un’altra realtà ampiamente dimenticata: nei decenni ante-legge 194, ai tempi delle “mammane”, in particolare al Sud, l’aborto era praticato, spesso con modalità larvatamente coercitive, per prevenire eventuali scandali legati a figli illegittimi.

Motivazioni, queste appena menzionate, indubbiamente diverse da quelle prevalenti presso le adolescenti o le giovanissime di oggi. Non è stata di certo la società patriarcale a sdoganare l’aborto ma la società radicale di massa, dove il consumismo la fa da padrone, non solo rispetto alle merci ma anche rispetto ai corpi umani. Si afferma il sesso usa-e-getta secondo la logica del dominio, del piacere e dell’utilità che è funzionale al capitalismo più aggressivo. Lo aveva intuito, a metà degli anni ’70, Pier Paolo Pasolini, che nell’aborto legalizzato vedeva lo sdoganamento definitivo di ogni libertà sessuale. La fine di tali tabù, tuttavia, secondo l’intellettuale bolognese, era un frutto del “nuovo fascismo” generato dal “potere dei consumi”. Con la conseguenza che la libertà sessuale stava diventando “una convenzione, un obbligo, un dovere sociale, un’ansia sociale, una caratteristica irrinunciabile della qualità di vita del consumatore”.

Sulla scia della lungimiranza di Pasolini e di quanto avviene o è avvenuto in regimi autoritari (ispirati al comunismo, al fondamentalismo islamico o al turbocapitalismo), possiamo allora, senza tema di smentita, affermare che l’aborto è principalmente frutto di una mentalità padronale che, solo in apparenza, sostiene la libertà della donna, tenendo conto assai poco dell’inclinazione naturale femminile alla maternità e alla protezione della vita nascente, in particolare quella generata nel proprio grembo.

1) Per approfondimenti: https://www.interris.it/sociale/bambine-scartate