Giù le mani da Dumbo!

Dumbo
Foto: Wikimedia

Parecchi anni fa, trasmisero Dumbo in prima serata su Raiuno. Credo fosse in prima visione tv. Ai tempi andavano per la maggiore le videocassette, quindi lo registrammo. In poco tempo, io e mio fratello diventammo dei fan sfegatati di quel classico disneiano. Eravamo bambini e arrivammo a vederlo anche più volte a settimana… Pochi anni dopo, scoprimmo Gli Aristogatti e iniziammo a impararci le battute a memoria, canzoni comprese. Peter Pan l’abbiamo visto forse soltanto una volta o due ma lo apprezzammo ugualmente. Ciononostante (mia madre potrà testimoniare!), non siamo di certo cresciuti psicologicamente disturbati, né tantomeno razzisti o violenti.

Alla luce di questi lieti ricordi d’infanzia, non volevo credere ai miei occhi, quando ho appreso dell’inaudita censura che si è abbattuta su questi tre capisaldi del cinema d’animazione. Per meglio dire, un’autocensura, visto che è stato proprio il canale Disney+ a cancellare tutti e tre i lungometraggi dalla lista dedicata ai bambini, lasciandoli visibili soltanto agli adulti. Cosa potrà mai esserci di tanto morboso e perverso nella tenerissima storia di un elefantino che impara a volare?

Le vestali del politicamente corretto sono andate a cogliere l’ennesimo pelo nell’uovo. Nel film viene rappresentata la scena dell’allestimento del tendone circense, cui collaborano anche elefanti, cammelli e altri animali. Sullo sfondo, una tipica work song in stile afroamericano, di cui viene contestato un verso: “E quando poi veniamo pagati, buttiamo via tutti i nostri sogni”. Parole percepite come irriguardose verso gli schiavi neri che lavoravano nelle piantagioni di cotone.

La cosa incredibile è che, ad essere censurata, non è stata soltanto la canzone (cosa che, già di suo, avrebbe destato parecchia perplessità) ma l’intero film. Eppure, Dumbo è sempre stato accolto per il suo messaggio inclusivo. È la storia di un riscatto dal bodyshaming e dallo scherno facile, che insegna come i nostri punti di debolezza possono diventare la nostra forza. Per i censori al soldo della nuova gestione disneiana, evidentemente, tutto questo non basta. Assieme all’acqua sporca, o presunta tale, hanno deciso di gettar via anche il bambino (in questo caso l’elefantino…).

Non è andata meglio a Peter Pan, quando denomina “pellerossa” i compagni della tribù del Giglio Tigrato. Per i censori si tratterebbe di una gravissima offesa contro i nativi americani. Eppure, il capolavoro di J.M. Barrie, anche nella sua versione disneiana, è pieno di spunti pedagogici sulla difficile arte del crescere. Quanto, infine, agli Aristogatti non è risultata gradita la rappresentazione macchiettistica del siamese Shun Gon, dal chiaro accento asiatico, che utilizza i bastoncini del riso come bacchette per i suoi tamburi. Specie di questi tempi, guai a urtare la suscettibilità dei cinesi (ne sanno qualcosa Dolce & Gabbana…)! Anche quest’altro evergreen disneiano, che lo scorso anno ha compiuto cinquant’anni, contiene parecchi messaggi educativi: l’unione fa la forza, il superamento dei pregiudizi di classe, la protezione dei più deboli, ecc. Ai “catoni” del disegno animato, però, a quanto pare, non basta…

È davvero un peccato. A migliaia di bambini sarà preclusa la visione di tre film d’animazione che hanno allietato l’infanzia dei loro genitori e nonni. Lungometraggi che, fino a prova contraria, non si può certo dire che abbiano fomentato alcun fanatismo suprematista nelle generazioni precedenti. È vero: si tratta di una censura circoscritta e facilmente “aggirabile”. Il messaggio, però, è pesante e lascia il segno.

Se i cartoni del passato sono così diseducativi, cosa mai si potrà dire di quelli del presente? Meglio i Simpson? O magari Beavis and the Butthead o South Park? Seguendo scrupolosamente i criteri degli zelanti strateghi di Disney+, chissà quanti altri difetti si potranno scovare in altri classici, dal già censurato Lilli e il Vagabondo a La carica dei 101. Per non parlare delle fiabe dei Grimm, di Perrault o di Andersen, tutte, per definizione, politicamente scorrette.

Si sottraggono ai bambini prodotti completamente inoffensivi, con decisioni prese senza alcun dibattito, né contraddittorio. Esperti, psicologi e pedagogisti: non pervenuti, né consultati. Eppure, sarebbe interessante sapere quanti neri, nativi americani e asiatici si sarebbero sentiti realmente offesi dai suddetti lungometraggi animati e, soprattutto, a partire da quando, visto che il più recente dei tre ha mezzo secolo.

Evidentemente, anche per la Disney è iniziata una fase di revisionismo e di “autocritica” in stile quasi maoista, per cui tutto ciò che appartiene al passato, anche recente, è per ciò stesso deprecabile. In quest’ottica, soltanto prodotti come Frozen, spudoratissima apologia del lesbismo, risultano accettabili per la morale corrente. Tutto il resto va distrutto e condannato alla damnatio memoriae. È uno dei tanti volti della stessa cancel culture dei distruttori di monumenti che hanno seminato il terrore in America la scorsa estate. In questa inarrestabile e assurda “rivoluzione culturale”, il commento più sensato l’ho sentito dalla madre di un ragazzo tredicenne: i bambini non hanno la malizia di cogliere messaggi razzisti o controversi, laddove questi non ci sono. Il vero problema siamo noi adulti, con le nostre paure infondate e la distorta visione del mondo che rovina l’incanto dei più piccoli.