Pinocchio: un Vangelo “travestito” da fiaba
È stato il campione di incassi nelle due settimane a cavallo di Natale. Nei suoi primi quindici giorni di proiezione nelle sale cinematografiche italiane, Pinocchio di Matteo Garrone è una spanna sopra tutti gli altri film, con 11.662.209 milioni di euro al botteghino. Una popolarità che testimonia quanto la celeberrima fiaba collodiana rimanga un classico senza tempo, evergreen intramontabile in grado di incantare almeno cinque o sei generazioni di adulti e di bambini. Pinocchio è tremendamente fantastico e realistico al tempo stesso. Diverte e parla al cuore. Inquieta e commuove. È una storia che, al netto delle allegorie, riguarda tutti noi, quello che siamo stati, quello che siamo diventati, quello che potevamo diventare se avessimo imboccato una strada diversa, forse persino quello che diventeremo in futuro.
Le migliaia di commenti riversati sui social in queste due settimane la dicono lunga su quanto questa storia sia sempre in grado di suscitare sentimenti viscerali e di segno opposto: Pinocchio non tollera mezze misure, o lo ami o lo odi. Abbondano anche i suoi detrattori, probabilmente perché non è una fiaba politicamente corretta, né rassicurante: si parla della differenza tra il bene e il male (concetto oggi non più così scontato), della morte, delle situazioni pericolose in cui un ragazzo si può cacciare, si parla – udite, udite – del rispetto dell’autorità, sia essa quella del padre, dell’insegnante o del pubblico ufficiale.
Per quanto profondamente impregnato dei valori borghesi di fine ‘800, Pinocchio non è mai moralista in senso deteriore. Collodi pone l’accento sugli affetti: imparando a voler bene e a non procurare dispiaceri a Geppetto prima, alla fatina poi, Pinocchio compie il primo passo nella sua palingenesi da burattino a essere umano. Per usare un linguaggio biblico, egli passa dall’avere un “cuore di pietra” (di legno nel suo caso…) a un “cuore di carne” (cfr Ez 36,26). Prendiamo anche la scena in cui Pinocchio, marinando la scuola, si reca al teatro dei burattini: di per sé non compie nulla di male, in quanto sta cercando la compagnia dei suoi simili, tuttavia si ostina a farlo anteponendo il piacere al dovere. Quando poi salva la vita ad Arlecchino e riesce a commuovere Mangiafuoco, Pinocchio diventa l’archetipo della natura umana generosa ma volubile, capace di slanci di bene e di empatia, anche quando, fino a un attimo prima, è stato uno scavezzacollo.
Nella profondità del suo cuore, Pinocchio agogna il bene da quasi subito, sa già qual è la meta cui è diretto ma il suo limite è nel cercare continuamente delle scorciatoie. Tutto, subito e senza sacrificio, come quando pretende di guarire senza ingurgitare la medicina amarissima che la fatina gli porge. La sana intenzione di aiutare economicamente il babbo viene vanificata dalla sua infantile incapacità di distinguere i malintenzionati dalle persone perbene. Pinocchio viene portato sulla cattiva strada prima dal Gatto e dalla Volpe, poi da Lucignolo. Mentre i primi due, però, sono due falsi amici che Pinocchio stesso, in fondo, si illude di poter usare, con il terzo, il burattino intreccia un legame affettivo più profondo, in cui scatta un meccanismo di complicità e di identificazione reciproca, particolarmente carico di pathos nel momento in cui entrambi, sgomenti, si accorgono del loro transito alla natura asinina. Pinocchio com-patisce Lucignolo ma è proprio nel doloroso distacco dall’amico, che il desiderio di diventare un bambino in carne ed ossa inizia a travolgerlo definitivamente. Pinocchio ce l’ha fatta, Lucignolo no. Il riscatto dalla perdizione è sempre possibile, a patto che tale riscatto sia sempre frutto di una nostra scelta libera e consapevole.