60 anni di Vaticano II: una storia ancora da scrivere

Vescovi in piazza San Pietro all'inaugurazione del Concilio Vaticano II
Foto: Peter Geymayer (Wikimedia Commons)

In sessant’anni, sul Concilio Vaticano II sono stati spesi fiumi d’inchiostro. Ciò in cui, purtroppo, gli studiosi hanno fallito è stata la definizione oggettiva dell’evento conciliare come realtà storica. C’è tuttavia una scusante: è pressoché impossibile sganciare l’evento istituzionale del Concilio (11 ottobre 1962 – 8 dicembre 1965) dalla sua incidenza sulla Chiesa dei decenni successivi. Il Vaticano II è qualcosa che sta ancora manifestando i suoi effetti nella storia, ancora tutti da decifrare. Se è difficile essere imparziali nel narrare il passato, dunque, a maggior ragione, il rischio dell’“effetto tifoseria” sarà altissimo quando l’oggetto del contendere tocca l’attualità.

Lo stesso Concilio Vaticano II ha tuttora accesissimi sostenitori e altrettanto agguerriti detrattori. Le due ermeneutiche della “continuità” e della “discontinuità”, descritte magistralmente dal papa emerito Benedetto XVI, hanno dato vita a due approcci distinti. Il primo, quello prevalente, classifica il Vaticano II come uno dei tanti concili che hanno attraversato la storia della Chiesa, indubbiamente tra i più importanti ma non certo una rottura con il passato e con la tradizione. Il secondo approccio, al contrario, vede la nascita di una nuova Chiesa, radicalmente diversa da quella pre-1962, ancorata, sì, alle Scritture, ma piuttosto “elastica”, in fatto di dottrina, di sacramenti o di liturgia. Gli ultraprogressisti sono quindi inclini a questa idea di “rivoluzione permanente” che ancora deve vedere il proprio compimento, mentre, al contrario, gli ultraconservatori considerano il Vaticano II una gigantesca eresia, nata stavolta all’interno delle mura leonine.

Per comprendere la reale portata dell’ultimo Concilio ed evitare letture faziose, è fondamentale attenersi al magistero pontificio, in particolare al discorso di chiusura del Vaticano II, da parte di San Paolo VI, alla lettera Novo millennio ineunte di San Giovanni Paolo II, a due straordinari discorsi di Benedetto XVI, pronunciati all’inizio e alla fine del suo pontificato, e all’esortazione apostolica Evangelii gaudium di papa Francesco. Da parte nostra, in prossimità dell’anniversario di apertura del Concilio, andremo a prendere in esame la celebre allocuzione di San Giovanni XXIII, di cui gli storici e i cronisti hanno sempre selezionato i passaggi giudicati – nella forma o nella sostanza – più sorprendenti o rivoluzionari. In realtà, ciò che papa Roncalli pronunciò in quel momento epocale, al di là dell’immaginifico “discorso alla Luna” o della commovente “carezza ai bambini”, sono parole che colpiscono per la loro radicalità e per la loro assoluta aderenza alla Chiesa come realtà divina, prima ancora che umana.

In primo luogo, il “Papa buono” ribadì la natura cristocentrica della Chiesa, per cui “gli uomini o aderiscono a lui [Gesù, ndr] e alla sua Chiesa, e godono così della luce, della bontà, del giusto ordine e del bene della pace; oppure vivono senza di lui o combattono contro di lui e restano deliberatamente fuori della Chiesa, e per questo tra loro c’è confusione, le mutue relazioni diventano difficili, incombe il pericolo di guerre sanguinose”. Parole attualissime, che cozzano rovinosamente con l’idea di una Chiesa secolarizzata o propensa a scendere a patti con il mondo.

Scopo di ogni concilio ecumenico, proseguiva Roncalli, è quello di irradiare la “luce della verità” nella massima corrispondenza “con Cristo e la sua Chiesa”. In quell’occasione, il pontefice bergamasco ricordò che la convocazione del nuovo concilio era avvenuta poco meno di quattro anni prima, il 25 gennaio 1959, festa della Conversione di San Paolo, davanti al collegio cardinalizio riunitosi, come da tradizione nella basilica di San Paolo fuori le Mura. La Chiesa del Vaticano II è quindi una Chiesa spiccatamente “paolina”, bisognosa di una netta conversione, di un deciso ritorno a Cristo. Al tempo stesso, sulla scia dell’Apostolo delle Genti, è una Chiesa fortemente missionaria, volta ad annunciare il Vangelo in un mondo che non lo conosce o che l’ha dimenticato.

Giovanni XXIII non usò giri di parole nel ribadire che il compito principale del Concilio sarebbe stato quello di “difendere e diffondere la dottrina”, di modo che essa fosse custodita e insegnata “in forma più efficace”. Parole che forse spiazzeranno gli ultrà del “pastoralismo”, che ritengono la dottrina come un retaggio del passato, un appesantimento ai danni della genuinità del messaggio evangelico: nella migliore delle ipotesi un elemento destinato a passare in secondo piano.

Il Papa ricordava poi che non c’è mai stato “nessun tempo in cui la Chiesa non si sia opposta a questi errori; spesso li ha anche condannati, e talvolta con la massima severità”. Rispetto al passato, il vero discrimine sarebbe stato il ricorso alla “medicina della misericordia” a discapito delle “armi del rigore”. La Chiesa avrebbe cioè continuato a diffondere il suo magistero immutabile “esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando”. Esistevano e sarebbero ancora esistite “dottrine false, opinioni, pericoli da cui premunirsi e da avversare”, che contrastano “i retti principi dell’onestà” ed hanno prodotto “frutti letali”, a partire da “quelle forme di esistenza che ignorano Dio e le sue leggi, riponendo troppa fiducia nel progressi della tecnica, fondando il benessere unicamente sulle comodità della vita”.

Da un lato, quindi, il santo pontefice bergamasco deplorava la secolarizzazione nelle sue forme più deteriori, dall’altro, indicava la necessità sempre più urgente di comprendere la modernità e le problematiche dell’uomo contemporaneo, stigmatizzando i “profeti di sventura” che si rattristavano per una Chiesa vista ormai al lumicino.

Sono stati compiuti errori nel corso di questo sessantennio conciliare? Senza dubbio. Gli sbagli sono stati numerosi e anche clamorosi: si pensi alle derive del Catechismo olandese e alle fughe in avanti di varie conferenze episcopali del Centro Europa. Un errore diffuso, compiuto per lo più in buona fede, è stata forse la pretesa di un cambiamento eccessivamente rapido e indolore, l’illusione dell’arrivo di una nuova “primavera” dello Spirito. I primi 15-20 anni post-conciliari, in particolare, ci dimostrano che così non è stato e che ogni cammino ecclesiale non è tale, se non è accompagnato dalla Croce di Cristo.

Il complesso e lungo percorso conciliare cammina tuttora sulle gambe dei fedeli di oggi, la maggior parte dei quali sono nati nella Chiesa del Vaticano II e in essa sono stati formati. Molti dei cambiamenti auspicati sessant’anni fa hanno assunto consistenza con le riforme di papa Francesco, a partire dalla riforma della Curia Romana, che tuttavia non rappresenta un punto d’arrivo né di partenza, ma soltanto una delle più importanti tappe. Bisognerà ancora lavorare molto, invece, sulla crescita del peso specifico dei laici e sulla nuova evangelizzazione.

Il miglior omaggio che si potrà fare, dunque, a questa ricorrenza, sarà dunque ripensare al Vaticano II, a partire dai suoi documenti e dalle intuizioni dei padri conciliari, evitando la melassa retorica e le inutili contrapposizioni ideologiche che rischiano di produrre l’effetto boomerang del ritorno di un clericalismo, di cui, francamente, nessuno sente la mancanza.