Ci sono scrittori divenuti celebri per le loro opere, altri per le loro citazioni. Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), di cui mercoledì prossimo si celebrano i 150 anni dalla nascita, ha realizzato opere indubbiamente memorabili ma probabilmente lo si ricorda soprattutto per gli acutissimi ragionamenti, che, anche svincolati dal contesto, generano una quantità impressionante di aforismi. Centinaia di perle di saggezza, in grado di scardinare le certezze di migliaia di persone e, al contempo, di offrire solide conferme a molte altre.
Come si può collocare Chesterton nel panorama intellettuale del suo tempo? Indubbiamente è stato uno scrittore che sparigliato le carte in tavola, sugellando la propria conversione al cattolicesimo come il più coerente atto di modernità e di progresso che avrebbe potuto mettere in atto un inglese vissuto nella prima metà del 1900. Più che uomo della propria epoca, tuttavia, Chesterton è un’autore senza tempo. Se per assurdo, si potesse interloquire contemporaneamente con persone vissute in secoli differenti, l’autore britannico si sarebbe fatto comprendere da un cristiano nascosto nelle catacombe, da un cavaliere dell’epoca delle Crociate, da un’illuminista settecentesco, come anche da un new ager (di quelli intelligenti) della fine del secolo scorso.
Chesterton è un figlio dell’élite londinese del primo Novecento, cresciuto all’apice della cultura vittoriano-razionalista. Il suo acume intellettuale lo portò, tuttavia, alla conclusione che, più o meno consapevolmente, gli uomini del suo tempo si stessero incamminando verso l’eclissi della ragione, quando non completamente impazzendo. La peculiarità di Chesterton, comunque, è nel suo essere un “polemista col sorriso”. Nelle sue critiche alla modernità non c’è mai livore, né sarcasmo. C’è però un irresistibile – ma anche profondissimo – umorismo. Chesterton pone lo humour inglese a servizio delle verità eterne, come aveva fatto, quattro secoli prima il suo conterraneo San Tommaso Moro (1478-1535).
Per quale motivo, tuttavia, da anglicano (ma in realtà agnostico), Chesterton diventa cattolico? Lo scrittore londinese, nel suo coerente razionalismo, è spinto da un desiderio di verità. Interessato ad approfondire i concetti di ortodossia e di eresia, comprende ben presto che l’eretico è colui che si appassiona a un singolo frammento di verità e lo assolutizza, ignorando gli ampi orizzonti della complessità e della trascendenza. E’ anche per questo che, nel 1922, Chesterton, ormai quasi cinquantenne, opta in modo definitivo per la Chiesa Cattolica, che lui definiva il luogo dove “tutte le verità si danno appuntamento”. Lo scrittore londinese non voleva “una Chiesa che si muova con il mondo” ma “una Chiesa che muova il mondo”.
Alla radice di questa scelta, c’è, in primo luogo il forte senso del peccato, che, tra i suoi contemporanei, lo scrittore avvertiva come fortemente smarrito. Scriveva Chesterton: “È un segno della saggezza imperscrutabile di Dio che ha voluto che i peccati vengano rimessi da uomini, e che si possa sentire dalla bocca di un altro essere umano, peccatore come noi: nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, io ti perdono i tuoi peccati”. Non è un caso che, prima ancora della sua conversione, Chesterton aveva ideato la figura del prete detective: Padre Brown protagonista di almeno una cinquantina di racconti è molto diverso da Sherlock Holmes, che ricostruisce i delitti in base agli indizi e ai dati di realtà. Ciò che muove le indagini di Padre Brown è la conoscenza dell’animo umano, nella consapevolezza del misteryum iniquitatis, che spinge l’essere umano ad azioni malvage e che è presente in ognuno di noi, anche in coloro in cui prevalgono carità e magnanimità.
Sul piano umano, Gilbert Keith Chesterton non fu uno “spirituale” in senso stretto. Al contrario, anche dopo la conversione, rimase un uomo propenso a godersi la vita, a mangiare, bere e divertirsi. Non certo per spirito autodistruttivo ma perché percepiva le gioie materiali non meno degne di quelle spirituali: le viveva come un segno dell’incarnazione di Dio in Gesù Cristo, che con l’uomo condivide qualunque cosa terrena, al di fuori del peccato. Emblematico è, in tal senso, il personaggio di Innocent Smith, protagonista del romanzo Uovo vivo, figura allegorica e paradossale, che va in giro con una pistola, sparando non per uccidere ma, al contrario, per dare vita a chi è defunto nell’animo e ha perso la propria meraviglia per l’esistente.
Chesterton è stato un pioniere della divulgazione religiosa, attraverso i mass media moderni (epocali le sue rubriche radiofoniche alla Bbc). Intuì con largo anticipo i pericoli del comunismo, dell’eugenetica e del “cretinismo di massa” e delle superstizioni moderne, anch’essi attribuiti all’eclissi della fede. Da qui una delle sue osservazioni più celebri: “Chi non crede in Dio non è vero che non crede in niente perché comincia a credere a tutto”. Quasi a corollario di ciò, Chesterton affermava che “il primo effetto di non credere in Dio è il perdere il senso comune e non poter vedere le cose come sono”.
Assieme a Manzoni, Dostoevskij, Tolkien e Guareschi, Chesterton è tra i grandi scrittori cristiani degli ultimi due secoli. E’ anche l’unico tra questi ad avere una causa di beatificazione avviata. Persino il cardinale Jorge Mario Bergoglio, tre giorni prima di diventare papa Francesco, ha approvato una preghiera di intercessione rivolta proprio a Chesterton. Con che occhi guarderebbe il mondo d’oggi lo scrittore inglese? Probabilmente con dolore e stupore per aver previsto molto di ciò che oggi sta accadendo. C’è da stare sicuri, comunque, che non perderebbe minimamente il suo proverbiale buonumore. Un raro caso di ottimismo della ragione, giustificato, però, dalla compresenza della fede, ad essa complementare e non contrapponibile.