Benedetta Europa, che fine hai fatto?

Nel 2020, l’#Europa si trova di fronte al più grande paradosso della sua storia: mai come oggi la sua unione politica era stata così vicina, eppure i suoi popoli si rivelano sempre più divisi e conflittuali. Gli ultimi sviluppi nella ricostruzione post-Covid, con le trattative sul MES e sul Recovery Fund, hanno palesato una volta per tutte la fallacia di quel colosso dai piedi d’argilla, che prende il nome di Unione Europea. Per la prima volta, il processo di integrazione europea rischia seriamente di implodere sulla spinta di egoismi atavici e miopie strutturali, che hanno indubbiamente ragioni complesse, tutte comunque riconducibili a un’unica causa primigenia: il tradimento della propria identità.

Ben prima dei Trattati di Roma, di Maastricht e di Lisbona, l’Europa ha già due volte conosciuto una parvenza di unità: durante l’Impero Romano (27 a.C. – 476 d.C.) e, alcuni secoli dopo, con il Sacro Romano Impero. Due grandi civiltà, quella latino-pagana e quella cristiana, hanno messo i sigilli all’anima profonda del vecchio continente, che è così potuto diventare un faro di civiltà per il mondo intero. Inizialmente entrati in conflitto, la classicità e il cristianesimo hanno poi trovato la loro sintesi virtuosa nel monachesimo benedettino. È anche per questo che, nel 1964, papa Paolo VI ha proclamato San Benedetto da Norcia, patrono d’Europa. In un secolo di estrema incertezza, contraddizione e confusione, Benedetto compì un gesto controcorrente, ritirandosi dal caos del mondo ed elaborando una Regola. Dopo mezzo millennio, il cristianesimo iniziava a darsi una vera autodisciplina, al fine di realizzarsi nella sua essenza profonda e per divenire parte integrante di una comunità di popoli molto diversi.

Fu lo stesso San Paolo VI a individuare nella “croce”, nel “libro” e nell’’“aratro”, le leve della rivoluzione benedettina del VI secolo. Punto di partenza per i monaci era indubbiamente la preghiera, che trasformava radicalmente l’uomo attraverso la penitenza, l’umiltà e il distacco dal mondo. Giunto da Norcia a Roma per la sua formazione, Benedetto era infatti rimasto scosso dalla corruzione dilagante che non risparmiava i suoi compagni di studi. Da qui, l’esigenza di ritirarsi in preghiera nella semi-solitudine, per vincere le tentazioni e riuscire nella sua unica vera ambizione: “soli Deo placere desiderans”, desiderare di piacere soltanto a Dio. Il santo trovò così rifugio prima ad Affile, poi nel “Sacro Speco”, la grotta di Subiaco, dove nacque la prima comunità benedettina. Questo ritiro dal mondo, tuttavia, non fu affatto fine a se stesso: nel silenzio, nella discrezione e nel nascondimento, i monaci benedettini iniziarono a pregare e lavorare (“ora et labora”) per le generazioni future. Salvarono così il libro, ovvero il meglio del “patrimonio umanistico” della cultura classica che i barbari rischiavano di distruggere per sempre, mentre con l’aratro inventarono nuove tecniche agrarie che permisero di “trasformare terre deserte e inselvatichite in campi fertilissimi e in graziosi giardini”.

In definitiva, il “segreto del successo” di San Benedetto e dei suoi seguaci risiedeva nella straordinaria lungimiranza di considerare la fede come la principale alleata della cultura e dello sviluppo sociale ed economico. In base al criterio dell’et-et, che evitava di porre in contraddizione i vari ambiti dell’agire e dello scibile umano, la civiltà cristiana – e in special modo benedettina – mostrò una straordinaria apertura mentale e un punto di vista di gran lunga più avanzato rispetto alle varie culture pagane, fino a poco tempo prima maggioritarie in quasi tutto il vecchio continente. Se guardiamo all’Europa attuale, è facile constatare come questi principi siano stati scardinati in modo sistematico. Il rinnegamento delle radici cristiane, che, a più riprese, i pontefici hanno denunciato negli ultimi vent’anni, passa innanzitutto per la contrapposizione capziosa delle tre matrici benedettine prima citate. Quando non viene esplicitamente ostacolata, la fede viene relegata alla sfera privata, avulsa dalle altre due componenti. Dall’et-et della civiltà cristiana tradizionale si è passati all’aut-aut dell’illuminismo secolarizzante: la fede è quindi diventata una nemica della cultura e dello sviluppo, dai quali è stata forzosamente separata. Con il risultato che le ideologie laiche e le dottrine economiche (marxismo prima, neoliberismo poi) sono diventate le nuove religioni. Con la degenerazione nell’utilitarismo e nell’economia anti-umana, poi, persino la cultura e lo sviluppo sono state messe l’una contro l’altro, secondo una mentalità riduzionista per la quale, l’arte, la poesia e la bellezza vengono disprezzate, in quanto poco lucrative. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: pessima letteratura, pessima musica e pessima arte, persino nelle chiese! Ultimo ma non ultimo, lo stesso sviluppo economico è entrato in collisione con un ulteriore fattore di autodistruzione: la finanziarizzazione dell’economia, elemento nichilista e altamente nocivo per la salute della comunità umana e dell’economia reale.

Un’analisi mirabile di tale dinamica laicista degenerativa fu fornita, già nel 1980, da San Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Sanctorum Altrix, in occasione del XV centenario della nascita di San Benedetto da Norcia: “Se Cristo non dà alla azione umana alto e perpetuo significato, colui che lavora diviene schiavo – nelle forme portate dai nuovi tempi – della sfrenata produzione che cerca solo il guadagno. Al contrario, san Benedetto afferma la necessità impellente di dare al lavoro un carattere spirituale, dilatando i confini dell’operosità umana, così che questa si preservi dall’esasperato esercizio della tecnica produttiva, e dalla cupidigia del privato guadagno”. L’attuale mentalità anti-cristiana e anti-benedettina è anche alla base dei mali che attanagliano l’Unione Europea, a partire dall’errore irreparabile di un’impostazione puramente economicistica, fondata, anziché sulla sussidiarietà e sulla condivisione, su una moneta unica “a debito” e su principi ragionieristici, freddi, senz’anima e fondamentalmente utopici, quali il pareggio di bilancio o la stabilità dei prezzi. Al punto che, con il sopraggiungere dell’attuale crisi economica e sanitaria, i tentativi di rilanciare un’Europa solidale, attraverso strumenti come gli eurobond o il SURE, hanno subito cozzato contro il muro degli egoismi nazionali, acuendo la contrapposizione tra i paesi del Nord e del Sud Europa.

La costruzione di un’Europa tanto elitaria, anemica e asettica, così poco cristiana e popolare, del resto, è non è la causa ma la conseguenza di questo processo involutivo. La vera malattia del vecchio continente fu individuata dallo stesso Giovanni Paolo II che, nell’esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Europa (2003), parlò di un “offuscamento della speranza”, di cui lo “smarrimento della memoria e dell’eredità cristiane” e l’affermazione di una “antropologia senza Cristo e senza Dio” erano i segni più evidenti. Il prezzo di questa eclissi della speranza è stato altissimo: nello stesso documento, papa Wojtyla denunciò la “paura nell’affrontare il futuro”, il “vuoto interiore che attanaglia molte persone”, la “perdita del significato della vita”, la “drammatica diminuzione della natalità”, il “calo delle vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata”, la “fatica, se non il rifiuto, di operare scelte definitive di vita anche nel matrimonio”. E ancora: una “sensazione di solitudine”, il “perdurare o il riproporsi di conflitti etnici”, il “rinascere di alcuni atteggiamenti razzisti” e delle “tensioni interreligiose”, l’“egocentrismo che chiude su di sé singoli e gruppi”, il “crescere di una generale indifferenza etica” e di una “cura spasmodica per i propri interessi e privilegi”. Errori che rischiavano di condurre l’Europa al “congedo con la storia”, come rimarcò da parte sua qualche anno dopo Benedetto XVI. Non fu più tenero, papa Francesco, che visitando l’Europarlamento a Strasburgo nel 2014, disse: “Un’Europa che non è più capace di aprirsi alla dimensione trascendente della vita è un’Europa che lentamente rischia di perdere la propria anima e anche quello ‘spirito umanistico’ che pure ama e difende”.

La distesa di rovine lungo le quali l’Europa di oggi vaga senza meta, richiama l’urgenza di una ricostruzione. Affinché l’Europa ritrovi se stessa e si salvi ancora una volta dalla barbarie, non è sufficiente la semplice riscoperta delle proprie radici cristiane: l’Europa dovrà tornare benedettina. Ogni europeo, indipendentemente dal suo status civile o dalla sua appartenenza religiosa, dovrà farsi monaco, pregando e lavorando per salvare dalla tempesta incombente il seme preziosissimo che ha ereditato.