Disastro Marmolada: quanto abbiamo paura della morte?

Crollo ghiacciaio Marmolada
Photo: Disasters - YouTube

Il territorio italiano vanta bellezze naturali uniche in Europa e nel mondo. Una straordinaria ricchezza paesaggistica, per la quale, però, c’è un prezzo da pagare molto alto: i frequenti dissesti idrogeologici e climatici, spesso con conseguenze particolarmente drammatiche. La recente sciagura della Marmolada, che ha determinato la morte di almeno undici persone, ne è una conferma.

Sul tragico episodio di domenica scorsa si è detto di tutto: incuria, disorganizzazione, imprudenza degli alpinisti, fino all’immancabile surriscaldamento globale. È stata comunque la Procura di Trento ad “escludere assolutamente una prevedibilità e una negligenza o un’imprudenza”. Per quanto provvisorie possano essere queste affermazioni, permane una certezza da non dimenticare: la natura ha dinamiche imprevedibili e può essere tanto generosa quanto “matrigna”. Quando avvengono disastri naturali, l’opinione pubblica tende spesso a cercare un colpevole. Si pensi alle polemiche e alla relativa inchiesta, emerse all’indomani del terremoto a L’Aquila del 2009, che, secondo un ricercatore, sarebbe stato assolutamente prevedibile, con gli strumenti della sismografia allora disponibili.

Siamo alle solite: l’uomo si ostina a pretendere di dominare la natura, di conoscerne tutte le dinamiche intrinseche, di poterla sfruttare scriteriatamente. Un atteggiamento solo apparentemente agli antipodi con la mentalità green che oggi va per la maggiore. In fondo, anche l’homo ecologicus non nasconde ambizioni strepitose: siamo sicuri che l’idea di poter contenere l’aumento della temperatura globale entro i due gradi, riducendo le emissioni di Co2 nei prossimi trent’anni non sia anch’essa un impulso a confermarsi padroni della natura e dei suoi schemi? Del resto, la stessa teoria del global warming come conseguenza delle attività umane non gode di consenso così unanime nella comunità scientifica, avendo destato la perplessità di studiosi come Franco Prodi, Antonino Zichichi e del Premio Nobel Carlo Rubbia.

Il disastro della Marmolada e le reazioni che ha suscitato, ci danno comunque un ulteriore spunto di riflessione sul modo in cui affrontiamo la morte. Per decenni, l’abbiamo rimossa dal nostro immaginario collettivo e dai nostri discorsi abituali. È proprio per questo che, ogniqualvolta si verifica una sciagura di dimensioni colossali, lo sbigottimento generale è incommensurabile. Proprio perché si fa più fatica ad accettare l’ineluttabilità della morte, la ricerca di un capro espiatorio è sempre dietro l’angolo.

La pandemia ancora in corso, che pure ha riportato la realtà della morte nel nostro quotidiano, non ha cambiato questa inclinazione alla colpevolizzazione facile, anzi, l’ha accentuata. Risultato: l’“untore”, il “potenziale assassino” diventa l’uomo della porta accanto. La rabbia collettiva si riversa contro persone miti e, fino a un istante prima, assolutamente insospettabili: inizialmente il runner o l’uomo che porta in giro il cane, in un secondo momento il no mask o l’organizzatore di festicciole domestiche, per arrivare poi al no vax.

Il mistero della natura e il mistero della morte sono due facce della stessa medaglia e la miglior chiave di lettura per la loro comprensione è sicuramente la Genesi. L’uomo è creato per soggiogare e dominare la terra (cfr Gen 1,28) ma, al tempo stesso, deve tenersi lontano dai frutti proibiti (cfr Gen 3,3). È tenuto, cioè, a coltivare il Creato, mantenendolo funzionale al progetto originario del creatore, guardandosi bene, però, dal farlo funzionare secondo criteri puramente umani. Ogni qualvolta l’uomo sfida Dio e le sue leggi, la morte è dietro l’angolo. Più l’uomo pretende di sostituirsi a Dio, tanta più morte seminerà nel mondo. È avvenuto con i totalitarismi del secolo scorso e continua ad avvenire con le utopie scientiste ed eugeniste di oggi.

Lo stato attuale della pandemia ci dimostra che i rimedi finora tentati per sconfiggerla sono stati fallimentari. L’esperienza di questi due anni e mezzo dovrebbe ormai insegnarci una volta per tutte che con certe malattie bisogna conviverci e che l’immunizzazione totale può avvenire soltanto per certi tipi di virus o batteri, grazie a una ricerca scientifica che ha bisogno di tempi molto lunghi. La nostra riluttanza ad accettare le malattie – anche le più blande – è speculare alla nostra riluttanza ad accettare la morte.

Ed è proprio in nome della paura della morte, che l’uomo incorre in alcuni dei suoi peggiori fallimenti: dagli ultimi feroci lockdown in Cina, all’aborto in tutte le sue sfaccettature (la paura della maternità o della paternità, in fondo, è la paura di dover morire alle proprie abitudini e comodità oppure della malattia e della probabile morte di un feto malformato). È in nome della paura della morte che si scatenano le guerre. È per la paura della scarsità di risorse (quindi della morte) che taluni sognano una popolazione mondiale dimezzate. Risultato: ancora più morti di quelli che, a parole, si vorrebbero evitare. Il rimedio a questo infinito e letale circolo vizioso è uno solo: abbracciare Dio nel suo paradosso più estremo: quello di lasciarsi morire per restituire la Vita a chiunque. Se solo pensassimo, ogni tanto, che la morte non ha l’ultima parola, la nostra prospettiva di vita cambierebbe in modo impressionante…