In questo primissimo drammatico scorcio di 2023, tutto si può dire tranne che stiamo vivendo un momento banale e noioso. Le dio-incidenze sicuramente esistono, non sempre è possibile definirle come tali ma, in ogni caso, quanto accaduto nell’ultima settimana a Palermo lascia seriamente pensare. Un’intera città ha pianto un suo figlio amato che ha sparso sementi di grazia e, negli stessi giorni, ha visto catturato e sconfitto un personaggio di comprovata iniquità. In Fra Biagio Conte e in Matteo Messina Denaro è scolpito il grande mistero della libertà umana, che spinge a compiere cose grandi, in una direzione o in quella diametralmente opposta.
Verrebbe quasi da dire, in modo un po’ temerario, che il bene ha bisogno del male come sottofondo, per essere riconosciuto e distinto, e viceversa. Gli uomini come Biagio Conte si spendono, soffrono e muoiono per tutti, anche per uomini come Matteo Messina Denaro. A Palermo si è consumato un incredibile incrocio di destini. Il buono muore e il malvagio resta in vita, un po’ come i frutti maturi cadono dall’albero, mentre quelli ancora acerbi, rimangono ben saldi sul ramo. Il male richiede il suo tempo per redimersi. Il bene incarnato nelle persone, invece, sembra fuggire, perché non appartiene a loro. Il bene non può rimanere soltanto in pochi, perché il seme se non muore non può dare frutto (cfr Gv 12,24).
In fondo, tutta la vita di Biagio Conte è stato un continuo morire a se stesso, alla carnalità, al quell’io che, alla fine, pesa e rende tristi, prigionieri. Senza esagerare, possiamo dire che il missionario laico palermitano scomparso la scorsa settimana è stato come un San Francesco dei nostri giorni. Anche Biagio era ricco e ha lasciato tutto per abbracciare quella povertà che si indentifica con la ricchezza dello Spirito.
Fra Biagio diceva: “Dio è nel sofferente, per questo non si vede!”. Indubbiamente, in quest’uomo, Dio ha permesso una sofferenza, che, inizialmente, ha preso forma nel travaglio spirituale, che lo ha portato ad abbandonare la vita del mondo. La scelta della solitudine e dell’eremitaggio, per lui, si è risolta – felicissimo paradosso – nell’opzione definitiva per l’altro. È questo il bello degli uomini come Francesco d’Assisi o come Biagio Conte: amare così tanto il povero da voler diventare come lui. Amare così tanto il malato, da accettare quasi con gioia la malattia grave. E Fra Biagio la sofferenza l’aveva conosciuta già molti anni fa, ammalandosi di una grave neuropatia agli arti inferiori. Dio gli donò la guarigione a Lourdes, per fargli sperimentare l’esperienza della Resurrezione già in vita. Quando poi ha contratto la malattia che lo ha portato alla morte, dunque, fra Biagio è arrivato preparato più che mai.
Di Fra Biagio, vorrei raccontare un episodio personale, di cui sono stato testimone assieme ad almeno un altro centinaio di persone. Ebbi modo di vederlo di persona soltanto una volta, al Meeting di Rimini del 2013. Durante la testimonianza, l’eremita palermitano raccontò del miracolo che gli aveva restituito la deambulazione: “Adesso non cammino… corro!!!”, disse. Poi, poco prima di congedarsi, salutò calorosamente un bambino con sindrome di Down di 5 o 6 anni: quest’ultimo, rimasto sorpreso dell’atteggiamento affettuoso di Fra Biagio, fece per scappare, come imbarazzato. Il missionario, però, lo rincorse, lo afferrò e, abbracciandolo, fece ridere e sorridere di vero cuore quel bimbo, suscitando l’applauso commosso dei presenti.
Quest’allegria così contagiosa, però, non nasceva dal nulla, né era scontata. Da giovane Biagio aveva attraversato la buia notte della sua anima, sentendosi un pesce fuor d’acqua, nel contesto agiato e pieno di sicurezze materiali in cui era cresciuto. “Nessuno riusciva a curarmi, io non ero malato, soffrivo per i guasti della società”, racconta lui stesso nel suo libro autobiografico La città dei poveri (Edizioni Pozzo di Giacobbe). “Non era un problema mio, erano i mali del mondo a non lasciarmi in pace. Ero fuori gioco. Avrei digiunato fino alla morte per scuotere le coscienze degli uomini e costringerli a guardarsi attorno”. Soltanto Gesù ha potuto illuminarlo e salvarlo, dopo una fuga eremitica verso le montagne palermitane, con tanto di lettera d’addio ai genitori. Giorni di solitudine e smarrimento, trascorsi a cibarsi di bacche, fave ed erbe selvatiche. “Stavo morendo. Ho raccolto le ultime energie e ho pregato Dio di non abbandonarmi se era veramente lui ad avermi spunto fuori di casa. Un calore incredibile ha attraversato il mio corpo, una luce mi ha abbagliato così violentemente da farmi alzare per trovare riparo. Freddo, fame, stanchezza di colpo erano spariti. Stavo bene e potevo ricominciare a camminare. Tutto il mondo mi aveva abbandonato – scrive fra Biagio – ma Gesù era accanto a me. La sua forza aveva cancellato la sofferenza. Mi aveva guarito. Lo so, è difficile crederci, ma è andata proprio così”.
Pur lottando molto per la giustizia sociale, non è stato un prete anti-mafia, né un attivista per la legalità in senso stretto. È stato però un esempio per la sua terra e per i suoi concittadini a non rassegnarsi al crimine, indicando, in modo implicito che, non solo la mafia può essere sconfitta ma che, negli stessi contesti, ognuno può incarnare con la propria vita, ciò che è l’esatto opposto della mafia stessa: la bellezza, la libertà, l’amore incondizionato. È anche per questo che stentiamo a ritenere casuale la sua morte a ridosso della cattura del più pericoloso latitante di Cosa Nostra. Vedendo il male in azione, non ci basta combatterlo: abbiamo bisogno che il bene agisca e si esprima, che si manifesti nelle azioni delle persone, ma, in primo luogo, nel loro cuore. Fra Biagio Conte ci ha quantomeno provato. E molto lascia pensare che ci è riuscito.