Dieci anni fa esatti, in questi giorni, non si parlava d’altro. Una volta tanto, eravamo tutti italiani e l’occasione – incredibile ma vero – non era calcistica, né sportiva. Al punto che, unica volta nella storia, il 17 marzo 2011 fu giornata di festa per tutti, per celebrare il 150° anniversario della proclamazione dello stato italiano. Cosa è rimasto della retorica di quei giorni? Molto poco, quasi tutti hanno abbondantemente dimenticato. Eppure, in modo magari un po’ sgangherato, trainati più dall’euforia che dalla consapevolezza, un po’ tutti ci eravamo sentiti tutti genuinamente italiani e patrioti.
Quest’anno, del 160° anniversario della nostra nazione, non parlerà forse nessuno. Un po’ perché ricade tra le ricorrenze non del tutto “tonde”, quindi minori. Un po’ perché, con la retorica del globalismo, parlar bene della propria patria è diventato nuovamente un tabù. Un po’ perché, più banalmente, siamo tutti caduti nel loop del “c’è poco da festeggiare”. Nel nostro piccolo, controcorrente e senza retorica, noi lo faremo.
Siamo un Paese che nasce con un difetto di fabbrica. Un handicap, un fonte di malinconia, se si vuole. Siamo diventati “uniti” con clamoroso ritardo, rispetto alla grande maggioranza dei principali stati nazionali europei: Francia, Spagna, Gran Bretagna, Olanda, Austria, Polonia, Russia si formarono a cavallo tra Medioevo e modernità, nel momento in cui le identità culturali e linguistiche prendevano definitivamente forma. Per l’Italia, questo processo è avvenuto in modo temporalmente “sfalsato”. 500 e più anni prima della nostra unità, il nome Italia era già in uso e si identificava in una pluralità di simboli forti ma difficilmente perimetrabili.
Molto prima di nascere come stato, l’Italia era come una madre i cui figli si sentivano in qualche modo orfani e abbandonati. “Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di provincie, ma bordello!” (Purgatorio, VI, 76-78): già in questi versi, Dante Alighieri coglie la decadenza di un presente e la grandezza di un passato identificato nello splendore imperiale romano. Ma Dante, intellettuale cristiano per definizione, pur indicando in un Impero dalle dimensioni continentali la forma di governo ideale (il Sacro Romano Impero allora già in piena decadenza), non riesce a resistere al richiamo della patria e delle radici.
Poco decenni dopo un “lamento” simile arriva dal Petrarca: “Italia mia, benché ’l parlar sia indarno a le piaghe mortali che nel bel corpo tuo sì spesse veggio” (Canzoniere, 128,1-3). Anche nel poeta aretino, si riscontra questo amor patrio che sgorga nel dolore per la divisione di popoli nati fratelli ed inconsapevoli della loro missione comune. Cinque secoli dopo, sulla stessa lunghezza d’onda, Leopardi scrive: “O patria mia, vedo le mura e gli archi E le colonne e i simulacri e l’erme Torri degli avi nostri, Ma la gloria non vedo, Non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi I nostri padri antichi. Or fatta inerme, Nuda la fronte e nudo il petto mostri. Oimè quante ferite, Che lividor, che sangue!” (All’Italia).
È proprio per questo che essere italiani è così faticoso e doloroso. Ci ricordiamo della nostra appartenenza, per lo più nei momenti di emergenza e di dolore. Come quando, anni fa, la mafia e il terrorismo sfidavano lo stato a suon di stragi e terrore. Come quando qualche nostro militare finisce ucciso in missioni di guerra. Come quando arriva un’alluvione o un terremoto. Ci siamo ricordati di essere italiani, un anno fa, quando, primo paese europeo colpito dalla pandemia, con euforica ingenuità, esponevamo i nostri tricolori e i nostri “andrà tutto bene”, canticchiando talvolta dai balconi le italiche melodie. L’Italia è il paese dove, quando muore qualcuno, pure se non conta nulla, al suo funerale vi partecipa anche gente che non lo conosceva. Nel dolore sappiamo essere uniti. Siamo sempre stati, più degli altri, un popolo dotato di empatia. È anche per questo che l’Italia è sempre stata eccellente nella medicina. In epoca rinascimentale, i primi ospedali nacquero proprio in Italia. I più illustri santi medici dell’epoca moderna, Riccardo Pampuri e Giuseppe Moscati, sono entrambi italiani.
L’Italia non ha mai avuto una vocazione imperialista, né tantomeno militarista. Al contrario, proprio per le sue bellezze e le sue risorse, è sempre stata meta di conquista e oggetto di colonizzazione da parte di altre nazioni. La nostra sovranità è sempre stata limitata e condizionata alle grandi potenze straniere e ogniqualvolta qualcuno ha provato ad emanciparla da questo ruolo, ha fatto una brutta fine. In compenso, siamo sempre inclini al ruolo di peacekeeper e di mediatori negli scenari di conflittualità: si pensi al nostro ruolo nel Mediterraneo durante la Guerra Fredda. E se, messi in gruppo, il nostro parametro di riferimento pare essere l’armata Brancaleone, a livello individuale tutto il mondo ci ha sempre invidiato. Nessuna terra ha dato i natali a Leonardo, Michelangelo, Galileo, Verdi, Marconi. Siamo maestri nel “saper vivere”. Come soggetto collettivo, spesso ci perdiamo in un bicchier d’acqua, eppure, da soli, sappiamo risolvere al volo problemi prima e meglio di altri.
In quanto popolo, abbiamo sempre scontato una strana carenza di autostima. I popoli stranieri, gli stessi che talora pubblicamente ci manifestano disprezzo, sono gli stessi che ci apprezzano più di quanto noi stessi ci apprezziamo. Non c’è straniero che non rimanga conquistato dal nostro Paese, dalla nostra gente, dal nostro paesaggio, dalla nostra storia, dalla nostra cucina. Siamo eterogenei: è difficile pensare cosa possa accomunare un lucano ad un friulano, un pugliese a un piemontese. Eppure, gli stranieri ci riconoscono sempre a due miglia come italiani.
A cavallo tra Settecento e Ottocento, l’Italia era la “stella polare” dei poeti del Centro-Nord Europa. Per curare la sua tisi, John Keats si stabilì a Roma, dove morì nella sua casa (oggi museo) di piazza di Spagna. Percy Bysshe Shelley e Lord Byron amarono immensamente la Toscana. Nel 1786, nel suo primo viaggio in Italia, Goethe rimase incantato dalla nostra natura: “Tutto ciò che tenta di vegetare sulle montagne qui ha già maggior vigore e vitalità, il solo è caldo e si può credere nuovamente in Dio”.
Dal canto suo, Dostoevskij, che pure amava poco Cavour e i Savoia, scriveva: “Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi quella papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano”.
Tante volte è stata sul punto di sprofondare e tante volte, miracolosamente, l’Italia è rinata. Oggi che vive il suo nuovo calvario, oggi che la sua stessa esistenza è messa in discussione, oggi che è stato svenduto e umiliato, il nostro Paese può rinascere solo se riscopre la sua vera vocazione. L’Italia tornerà grande se gli italiani torneranno a struggersi per la bellezza ferita della loro terra. Se sapranno essere sensibili al richiamo delle loro gloriose radici. Il nostro Paese tornerà grande se saprà riabbracciare la Croce che nasce da quella nostalgia.