Verso un inverno demografico globale

Mamma e bambino africani
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Nel contesto dell'”infodemia dilagante”, vi sono notizie che passano completamente inosservate agli occhi dei media. Alcune di queste sono notizie clamorose e di straordinario interesse, eppure riscuotono un’attenzione ridottissima. Ciò può avvenire esclusivamente per due motivi: 1) c’è un interesse deliberato a non diffonderle; 2) gli operatori della comunicazione sottovalutano miopemente la loro importanza.

Tale è stato il destino di un rapporto, a cura dell’Institute fo Health Metrics and Evaluation (Hme) dell’Università di Washington, pubblicato mercoledì scorso dalla prestigiosa rivista scientifica britannica The Lancet, con il titolo Global fertility in 204 countries and territories, 1950–2021, with forecasts to 2100: a comprehensive demographic analysis for the Global Burden of Disease Study 2021. Da un lato, lo studio conferma alcune tendenze già note, quali l’invecchiamento della popolazione in Europa e in Occidente. Dall’altro – cosa ben meno scontata – l’indagine mostra quella che è ormai una tendenza globale: di qui alla fine di questo secolo, il tasso di fertilità si ridurrà al punto che, nel 2100, in 198 Paesi su 204 (circa il 97%) il numero dei decessi sarà superiore a quello delle nascite.

Già nel 2050, tuttavia, in tre quarti del mondo il tasso di fertilità sarà inferiore ai 2,1 figli per donna, quindi al di sotto della soglia del ricambio generazionale. Per la precisione, si passerà dai 2,3 figli per donna del del 2021 all’1,68 del 2050 e all’1,57% del 2100. L’Italia, uno dei Paesi più in crisi sul piano demografico, vedrà declinare ulteriormente il suo tasso di fertilità, sia pure a ritmi meno vertiginosi rispetto al recente passato: nel 2050, scenderà a 1,18 figli per donna, mentre nel 2100, dopo mezzo secolo di relativa stabilità, si attesterà a 1,09.

L’area geografica che probabilmente osserverà il crollo demografico più importante sarà l’Asia Meridionale, dove le nascite sono state 32 milioni nel 2021, destinate però a scendere 18,7 milioni nel 2050. Emblematico è il caso del Bangladesh, che, nell’arco dello stesso trentennio, passerebbe dai 2,8 milioni di nati agli 1,37 milioni. Anche l’Africa subsahariana attraverserà un declino demografico, seppure più lento rispetto alle regioni asiatiche.

Sul piano sociale, quali saranno le conseguenze più concrete della denatalità globale? Il professor Stein Emil Vollset, uno dei curatori del rapporto, pur ragionando in un’ottica malthusiana e denatalista, non manca di intravedere notevoli scompensi per quasi tutto il pianeta. Da un lato, Vollset definisce il crollo dei tassi di fertilità come “una storia di successo, che riflette non solo una contraccezione migliore e facilmente disponibile, ma anche la scelta di molte donne di ritardare o avere meno figli, oltre a maggiori opportunità di istruzione e occupazione”. Al tempo stesso, però, lo studioso norvegese, ammette che “mentre la maggior parte dei Paesi si confronterà con le sfide economiche di una forza lavoro in calo e l’assistenza a una popolazione sempre più anziana, molti dei Paesi più poveri di risorse dell’Africa subsahariana si troveranno ad affrontare il problema di come sostenere la popolazione più giovane e in più rapida crescita del pianeta in alcuni dei luoghi più instabili dal punto di vista politico ed economico, sottoposti a stress termico e con sistemi sanitari in tilt”.

Da parte sua, Natalia Bhattacharjee, altra curatrice del rapporto pone l’accento sull’urgenza di una “riorganizzazione delle società”, che dovrà coinvolgere in particolare nell’Africa subsahariana, traducendosi in “sforzi per ridurre gli effetti del cambiamento climatico, migliorare le infrastrutture sanitarie e continuare a ridurre i tassi di mortalità infantile, insieme alle azioni per eliminare la povertà estrema e garantire che i diritti riproduttivi delle donne, la pianificazione familiare e l’istruzione delle ragazze siano priorità assolute per ogni governo”.

E’ evidente che ci troviamo di fronte alla nemesi di una cultura diventata di massa nell’arco di un paio di secoli: stiamo parlando del malthusianesimo, una vera e propria filosofia di vita, che partendo da un profondo pessimismo antropologico, giudica l’umanità sostanzialmente incapace di gesti solidali, propenso com’è ogni individuo a conservare la ricchezza per se stesso o per la sua ristretta cerchia di familiari o amici. In base a questa visione riduzionista, materialista e utilitarista dell’essere umano, sulla terra siamo e saremo sempre in troppi, mentre i poveri, gli ammalati e gli anziani sono nient’altro che un costo per la società e, in fondo, anche i bambini sarebbe meglio che non nascessero, in quanto ingestibili e non produttivi. E’ la stessa mentalità che ha prodotto l’aborto, la contraccezione, l’eutanasia e l’ideologia gender (anch’essa formidabile detonatore demografico, sia pure in forme meno immediate), esaltando quel consumismo individualista che è uno dei primi nemici della famiglia e della natalità. Le conseguenze di questo clamoroso e disastroso abbaglio sono sotto gli occhi di tutti: una popolazione sempre più anziana, sarà destinata ad essere sempre più povera, in quanto l’inevitabile spesa pubblica destinata ai sempre più numerosi fragili, anziani e malati, viene a contrarsi per la minor disponibilità di forza lavoro dovuta alla scarsità di giovani, quindi a pensioni e a un budget sanitario pubblico sempre più esegui.

Come si esce da questo loop terrificante? Riscoprendo la natalità come un valore per le famiglie e per l’intero contesto sociale: una popolazione numerosa implica di certo più responsabilità individuali e collettive ma, alla lunga, produce un arricchimento sia materiale che umano. Corollario: persino una frase facilmente etichettabile come confessionale, quale “crescete, moltiplicatevi e riempite la terra” (Gen 9,1) apparirà quanto di più razionale, sensato e persino “conveniente”.