Santa Sofia torna moschea: i rischi della re-islamizzazione in Turchia

Basilica di Santa Sofia a Istanbul
Foto: Arild Vågen (Wikimedia Commons)

“Penso a Santa Sofia, e sono molto addolorato”. Una brevissima frase, quasi fuori contesto, che tuttavia parla più mille interminabili prolusioni. Se anche un campione di diplomazia come papa Francesco, durante l’Angelus di domenica scorsa, si è sentito in dovere di intervenire sulla conversione della storica basilica di Costantinopoli in moschea, è segno che, ai confini orientali d’Europa, la situazione è molto grave.

Cos’è successo? Partiamo dalla fine: lo scorso 10 luglio, il Consiglio di Stato turco ha decretato all’unanimità la consacrazione di Santa Sofia a luogo di culto islamico. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha immediatamente ratificato la decisione dell’organo giudiziario, firmando il decreto attuativo sul cambio di destinazione dell’ex basilica bizantina. Eretta nel suo assetto attuale nel 532, Santa Sofia era rimasta cristiana per un millennio. Dopo la presa di Costantinopoli, nel 1453, gli Ottomani l’avevano trasformata in moschea. Nel 1934, una quindicina d’anni dopo il crollo dell’Impero Ottomano, Mustafa Kemal Ataturk, primo presidente laico della Turchia, sancì la sconsacrazione e la “neutralità” di Santa Sofia: non più moschea e nemmeno chiesa ma semplice museo. Nel 1985, Santa Sofia è stata proclamata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, che si è sempre opposto alla destinazione religiosa dell’edificio.

La riconversione di Santa Sofia a moschea arriva a quattro anni dalla presentazione del ricorso di un gruppo islamista, l’Associazione per la protezione dei monumenti storici e dell’ambiente. L’ex basilica riprenderà quindi il suo nome islamico di Hagia Sophia. Le autorità turche dovranno ora sciogliere le riserve riguardo a un’ultima decisione: ripristinare integralmente il vecchio status di moschea oppure far convivere la destinazione museale assieme a quella del luogo di culto. Intorno a questa operazione contro-secolarizzante, le principali forze politiche e religiose turche appaiono particolarmente compatte: tutti concordi il governo Erdogan, l’AKP, partito di maggioranza, la maggior parte degli Imam, i Fratelli Musulmani e tutti i gruppi fondamentalisti del paese anatolico.

È proprio sotto la guida di Ergodan, che la Turchia ha iniziato progressivamente ad abbandonare la tradizione di laicità inaugurata proprio da Ataturk, riconvertendosi ad una forte identità islamica, diventata negli anni sempre più aggressiva. Sempre sotto Erdogan, la Turchia ha conosciuto uno sviluppo economico senza pari che ne ha accresciuto il peso geopolitico nello scacchiere mediorientale. Una potenza locale, che può giocare un ruolo ambivalente su tutti i fronti: membro della NATO ma pronto a foraggiare il fondamentalismo; avversario di Israele ma anche della Russia e dell’Iran sciita. Con l’Unione Europea, in cui Ankara ha aspirato per anni all’ingresso, le relazioni sono profondamente condizionate dalla questione dei profughi: la Turchia è il paese che ospita il maggior numero di rifugiati iracheni e siriani (ormai più di tre milioni e mezzo), per il cui mantenimento ha ricevuto più di sei miliardi di euro da Bruxelles. Ogniqualvolta Erdogan ha minacciato l’Unione Europea di espellere una parte dei profughi – anche per via del mancato appoggio militare in Siria – Bruxelles ha sempre risposto con ulteriori sovvenzioni per trattenerli al di qua del Bosforo: un tira e molla che il governo turco non sembra disposto ad accettare in eterno. Il ruolo di Ankara è infine decisivo per la stabilità della Libia e della Siria. Il governo libico di Al Serraj, legittimamente riconosciuto a livello internazionale, è militarmente sostenuto da Erdogan ma questo appoggio si starebbe rivelando un cavallo di Troia per il riversamento in terra nordafricana di milizie jihadiste sul libro paga di Ankara. In Siria, invece, Erdogan continua ad appoggiare gli estremisti sunniti – in particolare i Fratelli Mussulmani – contro Assad.

Il primo leader cristiano ad esprimere allarme per la trasformazione di Santa Sofia in moschea, è stato il patriarca ortodosso di Mosca, Kirill, secondo il quale il provvedimento è “una minaccia per l’insieme della civilizzazione cristiana”. “Qualsiasi tentativo di umiliare o di calpestare l’eredità spirituale millenaria della Chiesa di Costantinopoli – ha aggiunto Kirill – è accolta dal popolo russo, allora come oggi, con indignazione e amarezza”. Netta la contrarietà della maggior parte dei patriarchi ortodossi europei: in particolare, Bartolomeo I di Costantinopoli, lo scorso 1 luglio (una decina di giorni prima della sentenza), aveva dichiarato che “la conversione di Santa Sofia in moschea deluderebbe milioni di cristiani nel mondo”.

La re-islamizzazione della Turchia rappresenta sicuramente un ostacolo per il dialogo interreligioso a cavallo tra Europa e Asia. Nella fase attuale, in cui il jihadismo terrorista ha subito una – forse temporanea – battuta d’arresto, si fa strada un fondamentalismo istituzionale, più subdolo e strisciante, di cui Ergodan e il suo partito sono l’espressione più fulgida. La Turchia è senz’altro il paese islamico con cui il Vaticano ha sempre avuto rapporti più tesi, in primo luogo a causa del genocidio armeno (per cui nel 2015 si sfiorò la crisi diplomatica) ma anche per il clima di ostilità anticristiana enormemente cresciuto tra la popolazione turca negli ultimi vent’anni. Una persecuzione pagata al prezzo della vita di due missionari italiani: don Andrea Santoro, ucciso nella sua parrocchia a Trebisonda nel 2006, e monsignor Luigi Padovese, vicario apostolico dell’Anatolia, sgozzato nel 2010 dal suo autista, al grido di “Allah akbar!”.

Le dinamiche più recenti, di certo, non mettono in discussione il dialogo islamo-cristiano, le cui fondamenta sono ben solide, tuttavia, se anche Bergoglio, solitamente prudentissimo in questo campo, ha espresso tutta la sua amarezza, è segno che, giocoforza, alcuni approcci dovranno cambiare. E non è affatto da escludere che, anche alla luce degli ultimi sviluppi, il tanto bistrattato discorso di Ratisbona di Benedetto XVI (2006) sarà da taluni rivalutato e compreso nella sua pienezza.