Pietro e Paolo: la storia dei patroni di Roma parla a ognuno di noi

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#Roma è una delle non molte città al mondo ad avere due santi come patroni principali. In #Italia vi sono soltanto altri quattro capoluoghi di provincia che detengono questa peculiarità: Brescia (Santi Faustino e Giovita), Gorizia (Santi Ilario e Taziano), Sondrio (Santi Protasio e Gervasio) e Udine (Santi Ermacora e Fortunato). Ciò che accomuna i Santi Pietro e Paolo alle altre quattro coppie di santi sono il martirio e la vita terrena trascorsa nei primi secoli cristiani. I patroni di Roma, tuttavia, pur essendosi le loro vicende incrociatesi a più riprese, hanno vissuto vite diverse, che rispecchiano un differente modello di santità.

Pietro e Paolo diventano così gli apostoli della Chiesa nascente che si va istituzionalizzando, stabilendo così in Roma la centralità e il primato rispetto alle altre chiese. Perché la diocesi in cui ha sede la Chiesa universale ha bisogno di due patroni? Roma venera in egual misura Pietro e Paolo, a ragione della complessità della sua missione nel mondo. C’è bisogno di una Chiesa che sia istituzione, solidità, roccia, pietra, per l’appunto, e di una Chiesa che si lanci oltre i suoi confini, alla conquista delle anime di genti lontane.

Il 29 giugno, data fissata per la celebrazione della solennità, è, secondo la tradizione il giorno del martirio di entrambi i santi, avvenuto in un anno compreso tra il 64 e il 67 d.C., quando a Roma l’imperatore era Nerone. Pietro muore crocifisso come il Signore ma a testa in giù, per riverenza a Gesù. Sul luogo del suo sacrificio, nasce la sede petrina e la Chiesa più grande del mondo, quella a lui dedicata. Paolo, in quanto cittadino romano, viene decapitato e la sua testa va a rimbalzare in tre punti, da cui sorgeranno tre miracolose fontane, le stesse che daranno il nome alla celebre abbazia. Non ci sono prove storiche che Pietro e Paolo siano morti lo stesso giorno. Di sicuro, la data in cui vengono festeggiati, trae origine dalla festività pagana del Quirino, in cui si commemoravano i due fondatori di Roma, Romolo e Remo. È come se la città fosse stata rifondata, stavolta non da due fratelli nella carne ma nello spirito. Come affermò nel V secolo papa San Leone Magno, grazie a Pietro e Paolo, Roma si era trasformata da “maestra di errore” a “discepola di verità”. Se Pietro detiene le chiavi del regno dei cieli, mettendo così il sigillo ai legami all’interno della Chiesa (cfr Mt 16,19), Paolo reca con sé la spada della “divisione”, ovvero del cristianesimo come segno di contraddizione, così come la croce è “scandalo per i giudei” e “stoltezza per i pagani” (1Cor 1,23).

Sia a Pietro che a Paolo è attribuito l’appellativo di Apostoli, sebbene solo il primo abbia fatto parte dei Dodici. Pietro ne è addirittura il Principe, non per meriti propri ma per la grazia divina che gli fa intuire la vera natura di Gesù, figlio del Dio vivente: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli” (Mt 16,17). Pietro è l’emblema vivente di come il Signore compia le sue più grandi opere – in questo caso addirittura la fondazione della sua Chiesa – nonostante i limiti temperamentali degli uomini. In numerose occasioni, Pietro si dimostra impulsivo, pavido, collerico, duro di comprendonio, persino traditore. Ha però un punto di forza, in grado di relativizzare tutti i suoi difetti: ama davvero e profondamente Gesù. Il suo amore si esprime in primo luogo nell’umiltà di riconoscere la grandezza del Maestro, contrapposta alla sua piccolezza. La grandezza di Pietro risalta principalmente nella sua genuflessione di fronte al Figlio di Dio, in virtù della quale riesce a riparare al suo triplice rinnegamento.

Per diventare successore di Cristo e primo Papa, Pietro viene sottoposto a numerose prove, anche molto dure. Deve innanzitutto imparare a fidarsi di Gesù e lo fa nella prima pesca miracolosa (cfr Lc 5,1-11), cui seguirà una seconda (cfr Gv 21,1-14), per rimediare alla sua durezza di cuore. C’è poi il cambio d’identità, che si sostanzia nel nuovo nome che Gesù gli attribuisce: nel passaggio da Simone a Pietro, c’è un salto di qualità ineguagliabile, l’ingresso a una vita completamente nuova, da pescatore di pesci a “pescatore di uomini” (cfr Lc 5,10). Pochi personaggi nei Vangeli ricevono rampogne così dure da parte di Gesù: se i farisei, che lo osteggiavano, erano “ipocriti” e “razza di vipere” (Mt 23,23.33), Simon Pietro, primo discepolo scelto, è addirittura “satana”, per l’ostinazione ad agire e pensare non secondo Dio ma secondo gli uomini (cfr Mc 8,33). I ‘ceffoni’ che Pietro riceve dal Maestro sono in tutto simili alle umiliazioni che ogni cristiano prima o poi riceve, per essere forgiato e modellato a misura di Cristo. Gesù ha scelto come suo primo vicario sulla terra, una persona con molti difetti, per incoraggiare l’intera umanità, compresi i più riluttanti, a seguirlo con fiducia. Fino al martirio finale, che lo renderà in tutto simile al Maestro: “Tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (Gv 21,18).

La storia personale di Paolo è completamente diversa da quella del Principe degli Apostoli. Non è un umile pescatore ma un fariseo, ovvero un rappresentante delle élite della sua epoca. Anche per Paolo c’è un prima e un dopo, un nome originario, Saulo, e un nome cristiano (Paulus, ovvero piccolo) che sottintende la sua umiliazione e sottomissione a Cristo. Anche per Paolo, c’è un incontro determinante con Gesù, che avviene in maniera piuttosto traumatica. La caduta da cavallo in cui Saulo incorre nel suo viaggio verso Damasco, è la caduta dal piedistallo di tutte le nostre certezze mondane, intrise di potere e di arroganza, al punto da indurci, più o meno consapevolmente, alla persecuzione di Dio stesso (cfr At 22,7-8). C’è da immaginare che, visto il rango che occupava, Paolo, a differenza di Pietro, fosse uomo di grandi ambizioni, e Gesù, in qualche modo, lo asseconda, seppure non in base ai suoi piani ma in base ai piani di Dio. Anche Paolo deve sottoporsi a una serie di umiliazioni che ne plasmeranno profondamente la personalità. Il temperamento da leader e il piglio da avventuriero li spenderà non più a servizio della sua sete di gloria personale ma per la gloria di Gesù Cristo, colui che prima perseguitava. I suoi viaggi e le sue peripezie cancellano tutte le sue sicurezze precedenti e lo conducono a un martirio cui lui è ormai pronto, perché ha compreso che “vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21). Con Pietro, Paolo entra in disaccordo sull’evangelizzazione dei pagani ma il principe degli Apostoli, alla fine, gli dà ragione e Paolo diventa l’Apostolo delle Genti.

In un momento particolarmente critico per la città di Roma, sarà un’ottima cosa ricorrere all’intercessione dei suoi Patroni, perché veglino sulla loro diocesi, così come sulla Chiesa intera, anch’essa segnata da divisioni e sofferenza. La storia di San Pietro e San Paolo parla a tutti noi, perché in ognuno di noi c’è un pigro, un traditore, un fariseo, un superbo, un pavido, un anticristiano. Dio usa le nostre cattive attitudini per portarci a compiere i suoi magnifici piani. E lo fa sconvolgendo e umiliando le nostre vite. Fino al momento in cui potremo dire: “Non sono più io che vivo ma Cristo vive in me” (Gal 2,20) e “Signore sai tutto, tu sai che ti amo” (Gv 21,17).