Aborto negli USA: siamo a un’inversione di tendenza?

Feto vita prenatale gravidanza
Foto: Magnus Lima (Flickr)

Venerdì 24 giugno 2022 è stata una giornata storica per chi crede nel valore della Vita. La Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ha annullato la sentenza Roe vs. Wade del 1973 (e assieme ad essa tutte i pronunciamenti successivi che ne erano derivati), che depenalizzava l’aborto fino alla 28° settimana, su tutto il territorio nazionale.

Da adesso, negli USA, l’aborto non viene bandito ma sarà disciplinato dai Congressi dei singoli Stati che potranno ulteriormente liberalizzarlo, porvi delle restrizioni o, addirittura, vietarlo. Sono già otto gli Stati (Missouri, Dakota del Sud, Arkansas, Kentucky, Louisiana, Oklahoma, Ohio, Utah) che hanno notevolmente ridotto la possibilità di abortire: con la nuova sentenza Dobbs vs. Jackson Women’s Health Organization, la Corte Suprema sostanzialmente legittima e conferma le loro nuove leggi pro-life. Altri Stati, come il Texas, si apprestano ora a varare leggi altrettanto rigorose nella tutela del concepito.

Quella dei sei giudici della Corte Suprema (gli altri tre si sono pronunciati contro il ribaltamento della Roe vs Wade) è stata indubbiamente una decisione coraggiosa. Non soltanto per la campagna denigratoria scatenatasi nei loro confronti fin dalle prime indiscrezioni su quello che sarebbe stato l’esito del loro voto ma anche per la portata rivoluzionaria della loro sentenza che comporterà anche incognite come le “migrazioni dell’aborto” verso gli stati limitrofi o addirittura il Messico e il Canada, da parte di quelle donne che non vorranno rinunciare a interrompere la propria gravidanza. Del resto, nella motivazione della sentenza, i sei magistrati pro-life (è bene onorarli, ricordando tutti i loro nomi: Samuel Alito, Amy Coney Barrett, Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh, il presidente John Roberts e Clarence Thomas) hanno ricordato che “l’aborto presenta una profonda questione morale” e che “la Costituzione non proibisce ai cittadini di ciascuno Stato di regolare o proibire l’aborto”.

Per mesi, i sei giudici della Corte Suprema hanno subito minacce, ritorsioni e scritte ingiuriose davanti alle loro abitazioni. Decine di centri di aiuto alla vita e di parrocchie sono stati vandalizzati dagli attivisti “per la scelta”. Ciononostante, i sei rappresentanti pro-life del massimo organo giurisprudenziale statunitense hanno proseguito lungo la loro strada, incuranti degli insulti dei vip e della manifesta ostilità di numerosi politici del Partito Democratico, a partire dal presidente Joe Biden, dal suo predecessore Barack Obama e dalla presidente della Camera dei Deputati, Nancy Pelosi. A dimostrazione che ci si può battere per la vita a tutti i livelli, senza compromessi e vincere battaglie importantissime.

Il traguardo raggiunto il 24 giugno è anche il risultato di una mentalità spiccatamente americana, molto meno diffusa nel vecchio continente: la libera discussione delle idee implica che tutte le idee e le argomentazioni abbiano diritto di cittadinanza. Nel caso in oggetto, le posizioni dei sei giudici di nomina repubblicana (uno fu scelto dal presidente George H. Bush, due da George W. Bush, gli altri tre da Donald Trump) sono il frutto di una cultura giuridica che, senza pregiudizio, ha accolto idee giudicate non “reazionarie” o “medioevali” ma semplicemente a favore della dignità umana. È vero, come dimostrano le manifestazioni violente dei sostenitori dell’aborto, non va sottovalutato il numero di coloro che, questa libertà d’opinione vorrebbero limitarla, in nome di un paradossale libertarismo edonista, individualista e nichilista. È altrettanto vero che, negli USA, salvo rare eccezioni, costantemente strumentalizzate dai liberal, il popolo pro-life è sempre stato pacifico e molto più disposto al confronto rispetto alla controparte.

C’è però un altro fattore non trascurabile, che ha permesso la straordinaria decisione della Corte Suprema: negli USA ha ancora cittadinanza la libertà di religione, che, con la libertà d’opinione, è strettamente apparentata. In altre parole, in America, a differenza dell’Europa, in un gran numero di cittadini, rimane forte la convinzione che sia lecito e doveroso agire coerentemente con i propri principi etico-religiosi, senza indulgere in sofismi o nel cosiddetto “male minore”. È anche in nome di questo rigore morale che l’arcivescovo di San Francisco, monsignor Salvatore Cordileone, ha diffidato la già menzionata Nancy Pelosi e tutti coloro che la pensano come lei dal ricevere l’eucaristia. La presidente della Camera è favorevole all’aborto, all’eutanasia e all’ideologia gender in tutte le sue forme e ha spesso difeso in maniera assertiva le sue convinzioni, a dispetto della sua esibita fede cattolica. Anche per questo, la scelta della Pelosi di recarsi in Vaticano all’indomani della storica sentenza della Corte Suprema e di ricevere la comunione in una messa celebrata dal Papa suona come una provocazione e una strumentalizzazione della Chiesa a fini politici.

In conclusione, resta viva una domanda. La sentenza Dobbs vs. Jackson potrebbe fare scuola in Italia e incoraggiare i pro-life nostrani a battersi per un superamento della Legge 194? Varie ragioni inducono a rispondere negativamente: dopo la sua conferma referendaria la “nostra” legge sull’aborto è stata in qualche modo blindata, al punto che gli stessi pro-life e i vescovi hanno preferito non metterla più in discussione. Il risultato ottenuto a Washington spinge, però, ad una seria riflessione, tenendo anche conto che, molto spesso, ciò che avviene oltreoceano è spesso un anticipo di quanto poi si verificherà in Europa. Siamo quindi a un’inversione di tendenza? Dobbiamo tutti concretamente sperarlo, altrimenti la battaglia per la sacralità della vita è destinata ad essere persa. Nessun traguardo importante, comunque, si ottiene senza fatica e senza soffrire: la cultura della morte è molto tenace e agguerrita e tirerà fuori il peggio di se stessa. Bisogna, però, essere disposti a tollerare di un buon grado l’ostilità che si sta scatenando. Per poter essere compiuto il Bene, ha bisogno di scelte radicali e coraggiose, che si annuncino come segno di contraddizione. La sentenza Dobbs vs. Jackson è stata una scelta di questo tipo.