Non nascondiamoci dietro un dito. Fosse anche stata una boutade o una provocazione, la recente dichiarazione del Ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, è di una gravità inaudita. Nessun italiano titolare di un ruolo pubblico di quel rilievo aveva mai osato arrivare ad affermazioni così ostili verso la sensibilità religiosa prevalente nel paese. Guardiamo ai due precedenti più significativi: a chiedere la rimozione dei crocefissi dalle aule scolastiche erano stati un musulmano di origine egiziana, Adel Smith, nel 2006, e un’atea di origini finlandesi, Soile Tuulikki Lautsi, nel 2009. Quest’ultima è colei che fece ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, vincendo la causa in primo grado ma perdendo poi la sentenza definitiva nel 2011. Nessun politico di spicco, meno che mai un Ministro della Repubblica aveva mai avanzato un’ostilità così radicale nei confronti del crocefisso a scuola. Poco importa se, dopo aver suscitato un vespaio di polemiche, Fioramonti abbia fatto una parziale marcia indietro: “Non è all’ordine del giorno, né mio, né del governo”, aveva detto, puntualizzando, comunque, di “credere in una scuola laica” e, per questo, di sognare “la Costituzione e gli obiettivi dello sviluppo sostenibile sulle pareti”. Parole che hanno il sapore di una nuova simbolica breccia di Porta Pia. Quali sono i reali cambiamenti che il Ministro auspica? Quali sono le nuove frontiere della “laicità” che il governo giallorosso, in carica da appena un mese, intende sperimentare?
In quest’ennesima controversia sull’utilizzo dei simboli religiosi, va preso atto che le reazioni delle gerarchie ecclesiali non sono state universalmente impeccabili. Bene ha fatto il segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana, monsignor Stefano Russo, a ricordare che “il crocifisso nelle aule scolastiche non è un simbolo divisivo. Qui non si tratta di una questione confessionale – ha aggiunto il presule – ma di civiltà e di appartenenza a una cultura intrisa di cristianesimo e anche di ciò che ne è scaturito in termini di accoglienza e di integrazione”. Quantomeno infelice, invece, l’uscita di monsignor Michele Pennisi, arcivescovo di Monreale, secondo il quale togliere il crocifisso dalle aule scolastiche “servirebbe solo ad aiutare il leader della Lega, Matteo Salvini”, che, a suo dire, “utilizzerebbe la vicenda per la sua battaglia contro il governo che oltre ad aumentare le tasse urterebbe la sensibilità di gran parte degli italiani”. Riteniamo che, evitando di schierarsi politicamente – un vescovo non dovrebbe mai farlo – monsignor Pennisi avrebbe potuto limitarsi a difendere la sentenza del 2011, come effettivamente ha fatto, e a ricordare, come effettivamente ha fatto, che “il crocifisso non è soltanto un simbolo religioso ma anche un simbolo della cultura italiana, un valore di una sofferenza portata per amore e che non può creare fastidio a nessuno”.
Del resto, a difendere la presenza del crocifisso nei luoghi pubblici, vi sono e vi sono stati moltissimi laici. Tra il 2005 e il 2006, l’allora presidente del Senato, Marcello Pera, prima, e il filosofo Massimo Cacciari, poi, furono tra questi. Più volte, anche Vittorio Sgarbi non ha lesinato di dire la sua in merito, pur con il linguaggio colorito e pittoresco che gli appartiene. Giova poi ricordare ancora una volta le parole di Natalia Ginzburg. Nel 1988, la scrittrice ebrea sulle colonne dell’Unità, organo di stampa dell’allora Partito Comunista Italiano, vergò la più appassionata difesa del crocefisso a scuola, che sia mai stata fatta nell’epoca moderna: “Il crocifisso non genera nessuna discriminazione – scriveva la Ginzburg –. Tace. È l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza fra gli uomini fino allora assente. La rivoluzione cristiana ha cambiato il mondo. Vogliamo forse negare che ha cambiato il mondo? Sono quasi duemila anni che diciamo “prima di Cristo” e “dopo Cristo”. O vogliamo forse smettere di dire cosi? Il crocifisso non genera nessuna discriminazione. È muto e silenzioso. C’è stato sempre. Per i cattolici, è un simbolo religioso. Per altri, può essere niente, una parte del muro. E infine per qualcuno, per una minoranza minima, o magari per un solo bambino, può essere qualcosa di particolare, che suscita pensieri contrastanti. I diritti delle minoranze vanno rispettati”.
Il crocefisso, aggiungiamo noi, rivolgendoci in primis al Ministro Fioramonti, è un simbolo di abbandono e di sofferenza ma nell’amore. Se il crocefisso è non violento per definizione e, nella sua postura, pare abbracciare l’umanità intera, la Croce è un simbolo inclusivo per eccellenza, è molto simile a un +, al simbolo dell’addizione. È inclusiva, perché la sofferenza e la morte, che nessuno di noi sceglie e che nessuno di noi vorrebbe, ci accomunano tutti; è inclusiva, però, anche nella speranza di Resurrezione che – nella piena libertà dei figli di Dio – non riguarda una piccola cerchia di iniziati ma coinvolge tutti, davvero ognuno di noi.