Mette sempre un certo senso di inadeguatezza, l’idea di parlare di Dante. Eppure, cimentarsi vale sempre la pena, perché nessun poeta ci appartiene più di lui. Che lo si sia amato o detestato durante i nostri anni liceali, che ci si ricordi o meno qualcuna delle sue terzine, siamo tutti profondamente intrisi di cultura dantesca: troppo spesso, però, ce ne dimentichiamo. Nel VII centenario dell’“ascesa al Paradiso” del Poeta, ci sono innumerevoli chiavi di lettura per le sue opere e ognuno di noi può trovare qualche spunto che gli appartiene.
Prima ancora che come simbolo della cultura e della lingua italiche, Dante lo sentiamo nostro come compagno di strada. Non c’è passaggio della Divina Commedia (ma non vanno trascurate nemmeno le altre opere), in cui noi uomini del XXI secolo possiamo identificarci. Nella sua opera, particolare e universale si fondono armonicamente. Passato, presente e futuro sono entità che interagiscono e si comprendono reciprocamente l’una in funzione delle altre. Per questo, Dante è il poeta della profezia, al tempo stesso, e della nostalgia.
Tutti noi, nella nostra vita, abbiamo perduto qualcosa di prezioso e ne abbiamo compreso l’importanza soltanto dopo il distacco. Dante soffre immensamente in due momenti della sua vita: nel 1290, alla morte di Beatrice, e nel 1302, quando viene esiliato da Firenze. Senza un senso della perdita, non può nascere alcun desiderio. E Dante è il poeta del desiderio per definizione. La selva oscura in cui lui stesso si perde non è dissimile dalla “valle oscura” del Salmo 23. Impossibile l’immersione nel mistero del male, se non facciamo i conti con le nostre “fiere” interiori. Ogni volta che compiamo il nostro esame di coscienza, ogni volta che ci confessiamo, viviamo la nostra “discesa agli inferi”. Un’immersione che può farci paura ma che procederà spedita se abbiamo un Virgilio al nostro fianco che ci accompagna, che ci istruisce e ci rassicura sul buon esito certo del nostro viaggio. Conoscere il male e la sofferenza non è qualcosa di fine a se stesso. Dante sperimenta questo processo, vedendo illuminarsi nel suo “palazzo interiore” delle stanze che non immaginava. Lo vediamo quindi provare compassione per una sciagurata coppia di adulteri: “Francesca, i tuoi martìri a lagrimar mi fanno tristo e pio” (Inf. V, 116-117). Per poi, sotto il peso dell’empatia, cadere “come corpo cade” (Ibidem, 142).
All’Inferno, Dante passa per il disprezzo, per la paura, per il sarcasmo. Ma riesce anche a provare rispetto dinnanzi a dannati carichi di dignità come Farinata degli Uberti (Inf. X) o pietà di fronte a infimi traditori come il conte Ugolino (Inf. XXXIII). Ci fa riflettere sul senso del limite che non risparmia eroi come Ulisse (Inf. XXVI). Ci fa persino sorridere quando descrive una scaramuccia tra i demoni delle bolge (Inf. XXI). Quando l’intero viaggio infernale si è concluso, Dante e Virgilio escono a “riveder le stelle” (Inf. XXXIV, 139). L’immagine è spettacolare, perché richiama alla mente le stelle in cui Dio mostra ad Abramo la sua discendenza (Gen 15,5). Nelle stelle lontane è incastonato il de-siderio di un Dio lontano ma meno irraggiungibile di quanto si può immaginare.
È ancora una mancanza, quella della libertà, per cui Dante nuovamente si strugge, al momento del suo incontro con Catone l’Uticense (Pur. I), all’ingresso del Purgatorio. Si commuove di nuovo davanti a Pia de’ Tolomei (Pur. V) e all’ingiustizia da lei subita in vita. Nei canti “politici” (Inf. VI, Pur. VI, Par. VI), il Poeta imprime le sue invettive contro Firenze, contro l’Italia e contro l’Impero. Dante è stato la quintessenza dell’intellettuale “impegnato” della sua epoca, in maniera diametralmente opposta agli intellettuali odierni. Fedele allo schema tomista-aristotelico, Dante vive la politica non come servizio al potere ma alla Verità inscindibile da Dio incarnato in Gesù Cristo. Il concetto di giustizia, in Dante, non è puramente formale ma è saldamente legato ai vizi e alle virtù degli uomini. Nel cerchio dei golosi, il Poeta fa sfogare il dannato Ciacco contro la corruzione di Firenze, dove “superbia, invidia e avarizia sono le tre faville c’hanno i cuori accesi” (Inf. VI, 75). Dante non guarda alla legalità ma ai cuori degli uomini scrutati dall’amore di Dio.
Nei tre regni ultraterreni, Dante colloca numerosi personaggi da lui conosciuti in vita: Calvacante de’ Cavalcanti, padre dell’amico Guido, e il suo maestro Brunetto Latini all’Inferno (X e XV), il musico Casella (Pur. II) e il misterioso concittadino Belacqua (Pur. IV). In Paradiso, poi, non incontrerà amici o conoscenti ma un antenato, Cacciaguida, quasi a simboleggiare il maggior distacco dalla materialità contingente e dalla vita vissuta, che Dante dovrà guadagnare nel regno di Dio. Nei tre canti (Par. XVI-XVI-XVII) in cui Cacciaguida è protagonista, è sintetizzato non solo il passato, il presente e il futuro (esilio compreso) della famiglia di Dante ma il succo di un’epoca, il Medioevo, che ha esaurito la sua prima eroica fase, intrisa di virtù cavalleresche e sta entrando in una premodernità, dominata da ambizioni terrene, cupidigia e bieco individualismo.
Veniamo, infine, a Beatrice, colei della quale il Poeta scrisse “quello che mai non fue detto d’alcuna” (Vita Nova XLII). Quello di Dante per questa donna, che vide soltanto e mai sfiorò, non è né un amore irrealizzato, né tantomeno platonico. Nella Vita Nova e nella Commedia prende forma un paradosso: il Poeta usa la propria fantasia amorosa per approdare alla realtà su se stesso e alla realtà tout court. Da uomo medioevale e cristiano, Dante ha un altissimo concetto della donna, intesa come creatura colma di virtù e di bene, capace di spianare all’uomo in Paradiso. Dopo la morte di Beatrice, Dante si dispera e trova la consolazione nella filosofia, da un lato, e nei piaceri terreni, dall’altro. L’incontro ultraterreno con la donna amata, quindi non può che avvenire dopo la purificazione del Purgatorio. Dante deve affrontare la propria paura di amare, ammettere l’istintiva fuga dalla propria identità di uomo. Nell’accoglierlo, Beatrice non gli fa troppi complimenti, anzi, quasi imbronciata, lo ammonisce aspramente, mettendolo di fronte alla tristezza del peccato commesso: “Quando di carne a spirto era salita / e bellezza e virtù cresciuta m’era / fu’ io a lui men cara e men gradita / e volse i passi suoi per via non vera, / immagini di ben seguendo false, / che nulla promession rendono intera” (Pur. XXX, 126-129). Nella sostanza, Beatrice non accusa Dante di aver abbandonato lei ma di aver abbandonato Dio. In lei, il Poeta ha finalmente visto specchiato quel tu che gli conferisce l’identità (è Beatrice, la sola che, in tutta la Commedia, pronuncia il nome Dante). È solo nell’amore, non quello immaginato e idealizzato, ma quello reale, che costa lacrime e sangue, che l’uomo ritrova se stesso. Bisogna essere disposti a lasciarsi ferire per tornare integri. È solo in Dio che ritroviamo questa pienezza. Come scrive il Poeta all’epilogo del suo capolavoro: “Nel suo profondo vidi che s’interna, / legato con amore in un volume ciò che per l’universo si squaderna” (Par. XXXIII 85-87).