Don Luigi Maria Epicoco “L’essere prete è la cosa più bella che mi sia capitata”

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Intervista a Don Luigi Maria Epicoco, giovane sacerdote, teologo e scrittore italiano. Occupa la cattedra di filosofia alla Pontificia Università Lateranense ed è Direttore della Residenza Universitaria San Carlo Borromeo.

E’ un grande comunicatore in diverse trasmissioni radio e tv.

Don Epicoco è un sopravvissuto del terremoto che ha colpito l’Aquila nel 2009.

Lei è stato coinvolto in prima persona nel terremoto dell’Aquila. La domanda che molti si pongono è la seguente: come si può credere in Dio dopo un terremoto?

Forse dovremmo cambiare questa domanda chiedendoci “Come possiamo credere in Dio nel terremoto?” Cioè essere capaci di credere anche quando le cose non vanno come ce le aspetteremmo.

Questa è una sfida per ciascuno di noi perché se il cristianesimo è veritiero soltanto quando splende il sole … allora è soltanto una nostra illusione!

E’ la stessa cosa che succede quando una persona pensa di amare un’altra persona ma se tu la ami soltanto quando tutto va bene e non la ami quando le cose cominciano ad andar male significa che non era vero amore ma qualcos’altro. La fede deve essere tale anche quando non splende il sole.

I momenti di buio (come può essere anche un terremoto) ci aiutano a capire se siamo veramente dei credenti oppure crediamo soltanto a qualche illusione che ci siamo costruiti con la nostra testa.

Il Terremoto le ha portato via qualcuno in particolare?

Ho perso molte persone a cui volevo bene in particolare alcuni dei miei ragazzi e diverse persone con le quali avevo trascorso insieme un tratto del mio cammino.

In che modo il cristiano deve approcciarsi alla sofferenza?

Così come si è approcciato Gesù Cristo ovvero cercando di viverla e di capire che la sofferenza è anche un mezzo per farsi Santi.

La sofferenza non deve diventare qualcosa di brutto dentro di noi come la rabbia, il rancore e non deve marcire.

Cristo ci insegna una mansuetudine per essere in grado di saper vivere la sofferenza. Non ci indica un modo per non soffrire ma un modo per soffrire come Lui.

Lei ha scritto 18 libri, alcuni dei quali sono dedicati alla Madonna. Che rapporto ha con la Madre di Dio?

Grazie a Dio ho un rapporto con la Madonna specialissimo, e questa profonda comunione che sento con la maternità di Maria è qualcosa che mi aiuta costantemente.

L’amore di questa Madre ha reso possibile dentro la mia vita, la possibilità di pensare al Vangelo (che è qualcosa di radicale) come qualcosa di possibile nella mia vita.

Diversamente il cristianesimo e il Vangelo sarebbero state delle cose molto belle ma per me, invivibili, e solo l’amore di una Madre riesce a porgere delle cose difficili e a metterti nel cuore, la fiducia che in realtà è possibile viverle.

Uno dei suoi ultimi libri s’intitola “La stella, il cammino, il bambino. Il Natale del Viandante”.

Cosa serve per mettersi in cammino?

Innanzitutto serve avere un viaggio da fare! Il peggio che possa capitare nella nostra vita è il fatto di non avere un viaggio per cui vale la pena svegliarsi la mattina cioè un motivo valido per cui vivere.

I magi sono da un punto di vista molto lontani da Cristo perché rappresentano la frangia dei non credenti e di quelli che apparentemente sono molto lontani da Cristo e che in realtà sono quelli che c’insegnano che Cristo lo si può trovare solo a patto che ci si metta in cammino e che lo si cerchi.

Significa prendere sul serio la stella dei desideri che è seppellita dentro ciascuno di noi e mettere in pratica tali desideri con delle decisioni, con un cammino concreto e delle scelte concrete.

Si arriva al punto di incontrare qualcuno di cui ti senti responsabile cioè un bambino, la capacità di amare ci mette nelle condizioni giuste di poter incrociare Cristo nella nostra vita.

Com’è nata la sua vocazione?

Questo bisogna domandarlo al Signore perché ad un certo punto ho sentito dentro di me di essere coinvolto in maniera del tutto speciale con Cristo, era un coinvolgimento bello ed il minimo che ho potuto fare è stato quello di dirgli “Ti do la mia vita”.

Sono entrato molto piccolo in seminario, avevo soltanto 15 anni ed il modo con cui pensavo al sacerdozio e pensavo a seguire Cristo era proporzionato a quell’età.

Crescendo mi sono sempre reso più conto della vertigine che si prova nello stare davanti a Lui e nel prendere sul serio la vocazione sacerdotale.

Sono arrivato al punto in cui mi ero reso conto di non esserne assolutamente capace.

Forse in quell’istante mi ero reso conto che Cristo non mi domandava nulla che fosse più grande delle mie forze ma mi chiedeva di fidarmi in maniera totale di Lui.

Con quell’atto di fiducia in Lui si è realizzata nella mia vita la cosa più bella che ho: l’essere prete!

Qual è l’atteggiamento che noi cristiani dobbiamo attuare nel tempo di attesa rappresentato dall’Avvento?

L’attesa è un tempo molto serio e possiamo paragonarlo a quando una persona cammina e che invece di guardare l’orizzonte comincia a guardarsi i piedi. Se comincia a guardarsi i piedi, si ammala perché non riesce più ad avere una traiettoria, tutto diventa noioso e tutto assume la fisionomia dei nostri piedi sporchi e della nostra strada che diventa monotona.

L’attesa è alzare lo sguardo e capire che quell’orizzonte dà senso al nostro viaggio e non semplicemente i nostri piedi.

La vita vale la pena viverla nonostante la stanchezza che a volte sorprende le nostre giornate e vale la pena perché abbiamo un orizzonte che Cristo ci regala, è Lui che ci fa alzare lo sguardo e dà profondità alla nostra vita e per questo senza attesa non possiamo vivere.

 

Servizio di Rita Sberna