Gilet gialli, terrorismo, rapporto deficit/PIL: l’Europa è impazzita?

Strasburgo è, in questi giorni, l’epicentro dell’attuale crisi europea, la più grave dall’ultimo dopoguerra. L’attentato di mercoledì scorso nel centro della città alsaziana ha riportato al centro dell’attenzione l’incubo del terrorismo islamico, dopo un paio d’anni di relativa calma. L’aspetto inquietante della vicenda è tuttavia il valore simbolico dello scenario della strage, che ha fatto quattro vittime e una quindicina di feriti. Non solo Strasburgo è sede del Parlamento Europeo ma, proprio per oggi, vi era in programma una nuova manifestazione dei Gilet gialli.

Nel cuore dell’Europa – non dimentichiamo che Strasburgo, nel corso dei secoli, è stata a fasi alterne territorio prima francese, poi tedesco ed è ancora in parte una città bilingue – si stanno consumando alcune delle più laceranti contraddizioni dell’Europa stessa, che rischiano di far esplodere il vecchio continente. Partiamo dai Gilet gialli: era dai tempi del ’68 che non si assisteva ad una così massiccia e popolare rivolta contro l’establishment, peraltro intergenerazionale, politicamente trasversale e sorta spontaneamente e dal basso, fino a prova contraria non eterodiretta da alcuna élite. Non sono semplicemente i rincari dei carburanti e gli aggravi fiscali che i manifestanti contestano. Sono ormai proprio le istituzioni europee ad essere nel mirino degli “sconfitti della globalizzazione” e dell’unione monetaria.

Un secondo risvolto delle vicende di questi giorni è sicuramente la rinegoziazione dei parametri fiscali, concessa dalla Commissione Europea al governo francese. Vistosi con le spalle al muro dalla montante protesta e con una popolarità ai minimi storici, il presidente Emmanuel Macron è stato costretto a rinnegare le misure di austerity, cavalli di battaglia dei suoi primi due anni di governo, promettendo meno tasse e più spesa pubblica, aggiornando al 3% il rapporto deficit/PIL, con il beneplacito del commissario all’Economia, Pierre Moscovici (francese anch’egli ed ex ministro dell’Economia). Diverso il trattamento nei confronti del governo italiano che, al contrario, ha dovuto accettare addirittura una riduzione del medesimo rapporto deficit/PIL, dal 2,4% programmato a un più restrittivo 2,04%.

Per quale motivo l’Unione Europea dovrebbe avere ‘figli e figliastri’? Al di là delle possibili spiegazioni tecniche sulla disparità di trattamento di cui sopra, va evidenziato che l’economia non è l’unico oggetto di diatriba tra i partner europei, come si è visto nella questione migratoria. Anche in questo ambito Francia e Italia si sono ritrovate ai ferri corti: oltralpe la situazione è satura, visti gli episodi di terrorismo degli ultimi quattro anni e l’inquietudine che serpeggia tra le minoranze afro-arabe e nelle banlieu, le forze dell’ordine continuano a respingere, spesso con metodi brutali, qualunque clandestino provi a varcare il confine di Ventimiglia. Da parte sua, l’Italia, per la sua posizione peninsulare al centro del Mediterraneo, rimane il paese più vulnerabile ai flussi migratori, penalizzata anche dal Trattato di Dublino, che impone l’accoglienza o concessione d’asilo da parte dei paesi di primo sbarco. La situazione italiana è diventata meno esplosiva, solo dopo gli accordi dell’ex ministro dell’Interno, Marco Minniti, con le autorità libiche e la stretta sulle ong da parte del suo successore, Matteo Salvini, che ha anche espresso la propria contrarietà alla firma italiana del Global Compact delle Nazioni Unite sull’immigrazione.

Economia, immigrazione e integrazione degli immigrati sono probabilmente le principali – ma non uniche – cartine di tornasole della crisi europea di questi ultimi anni, che ha visto paesi come la Grecia sprofondare nell’abisso della miseria, a causa dell’austerità imposta da Bruxelles. Quello che era nato come un progetto di mutua solidarietà, di pace e di riconciliazione post-bellica sta conoscendo una tristissima nemesi. L’Europa dei popoli è stata sostituita dall’Europa delle banche, dei parametri fiscali, dei regolamenti finanziari, della tecnocrazia e della concorrenza a tutti i costi. In barba ai tanto evocati principi di cooperazione e sussidiarietà, vediamo governi sempre più reciprocamente livorosi e una base elettorale sempre più stanca dei soprusi da parte di élite gelide e distanti anni luce dal sentire popolare.

Il rinnegamento delle radici cristiane, denunciato a più riprese dagli ultimi tre pontefici, non è solo un discorso religioso o di libertà di culto ma chiama in causa la nostra mentalità e i nostri stili di vita, anche nell’approccio alle materie economiche, oltre naturalmente alle questioni migratorie e alla tutela della famiglia naturale e della vita in tutte le sue fasi. C’è da augurarsi che gli episcopati e le chiese nazionali europee recepiscano bene la posta in gioco e, nella crisi attuale, senza indugio né timori reverenziali, prendano la parte dei più deboli e vessati.