Visitando la Repubblica Democratica del Congo e il Sud Sudan, papa Francesco realizza il suo 39° viaggio pontificio fuori dall’Italia. Complessivamente salgono a 61 i Paesi visitati da Bergoglio dall’inizio del suo pontificato. È la terza volta che il papa regnante compie una visita nell’Africa subsahariana: in precedenza si era recato in Kenya, Uganda e Repubblica Centrafricana (25-30 novembre 2015), poi in Mozambico, Madagascar e Mauritius (4-10 settembre 2019). Compreso il viaggio attuale, i Paesi subsahariani visitati da Francesco sono quindi otto.
L’Africa è costantemente al centro delle preoccupazioni del pontefice argentino. In ossequio alla sua attenzione privilegiata alle “periferie del mondo”, papa Francesco riservò un posto d’onore alla Repubblica Centrafricana, dove ebbe luogo l’apertura della prima Porta Santa (Bangui, 29 novembre 2015), in occasione dell’ultimo Giubileo straordinario. L’evento riscosse un’attenzione senza precedenti, essendo stato celebrato in un Paese dilaniato da una terribile guerra civile.
Il viaggio pontificio che si conclude oggi ha ugualmente coinvolto due Paesi profondamente divisi al loro interno, dove al dramma della povertà si somma quello della guerra. Questo Papa così provato dall’età avanzata e dai malanni (la visita, inizialmente in programma la scorsa estate, fu rimandata a causa dei problemi a un ginocchio) sembra simbolicamente fare da cireneo a due popoli in profonda tribolazione.
In particolare, per quanto riguarda la Repubblica Democratica del Congo, il Santo Padre ha dovuto rinunciare a recarsi nella provincia del Nord Kivu, dove la guerra civile ancora infuria e dove, due anni fa, fu assassinato l’ambasciatore italiano Luca Attanasio. Nulla ha potuto la missione di pace dell’Onu in un Paese martoriato da un conflitto ormai ventennale, dove l’esercito non riesce a tenere testa ai 160 gruppi armati ribelli. La Repubblica Democratica del Congo è uno dei Paesi africani più estesi, più popolati e anche più ricchi di risorse naturali: la transizione ecologica avviata in Occidente negli ultimi anni, ha reso questo territorio ancor più appetibile, vista la presenza di minerali come il coltan, fondamentale per le batterie delle auto elettriche, oltre che per la telefonia mobile e l’informatica. Questo continuo accaparramento di risorse non fa che incentivare l’avidità dei potentati locali e accentuare le tensioni.
Da sempre ambita per i suoi diamanti (senza trascurare i ricchi giacimenti di rame, cobalto, argento e uranio), la Repubblica Democratica del Congo è stata definita dal Papa un “diamante del creato”, non solo per i suoi minerali ma per le ricchezze “spirituali racchiuse nei cuori” dei congolesi. Durante il suo discorso alle autorità politiche e diplomatiche a Kinshasa, Francesco ha tuonato contro lo sfruttamento indiscriminato e “schiavizzante” dell’Africa, vittima di un “colonialismo economico”.
“Il veleno dell’avidità ha reso i suoi diamanti insanguinati. È un dramma davanti al quale il mondo economicamente più progredito chiude spesso gli occhi, le orecchie e la bocca”, ha aggiunto il Pontefice, lanciando il suo accorato appello per il Paese e per l’intero continente nero: “Giù le mani dalla Repubblica Democratica del Congo, giù le mani dall’Africa! Basta soffocare l’Africa: non è una miniera da sfruttare o un suolo da saccheggiare. L’Africa sia protagonista del suo destino!”.
Momento cruciale della visita è stato l’incontro del Santo Padre con le vittime della guerra civile presso la nunziatura apostolica a Kinshasa. È stato in quest’occasione che il Pontefice ha denunciato la “blasfemia della violenza in nome di un falso dio”, ovvero la “guerra scatenata da un’insaziabile avidità di materie prime e di denaro, che alimenta un’economia armata, la quale esige instabilità e corruzione. Che scandalo e che ipocrisia – ha aggiunto – la gente viene violentata e uccisa mentre gli affari che provocano violenze e morte continuano a prosperare!”.
La Repubblica Democratica del Congo, scossa da conflitti atavici anche di carattere etnico, non può avviarsi ad un percorso di riconciliazione, facendo affidamento soltanto sugli uomini. Il “no” alla “violenza” e alla “rassegnazione”, ha sottolineato Bergoglio, deve andare di pari passo a un doppio “sì” alla “riconciliazione” e alla “speranza”, la cui “sorgente” ha il nome di “Gesù”.
Ancor più complesso e delicato è lo scenario che il Papa ha incontrato nel Sud Sudan, Paese diventato indipendente nel 2011 e scosso da dieci anni di guerra civile. Secondo le cifre diffuse dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, circa 2,5 milioni di sudsudanesi popolano i campi profughi nei Paesi limitrofi, senza contare i 2 milioni di rifugiati interni. Nel Paese, circa 6,3 milioni di persone sopravvivono solo grazie agli ingenti aiuti del Programma alimentare mondiale (Wfp), mentre sono almeno 700mila le armi leggere che circolano nel Paese.
Nel contesto del Sud Sudan, la spinta del peacekeeping è ecumenica, nella misura in cui papa Francesco sta visitando questo Paese accompagnato dall’arcivescovo anglicano di Canterbury, Justin Welby, e dal moderatore della Chiesa presbiteriana di Scozia, Iain Greenshields. Un percorso che ha preso forma già nel 2019, anno in cui Welby raggiunse il Papa in Vaticano per una giornata di ritiro e di preghiera per la pace, assieme a tutti i vescovi cattolici e protestanti del Sud Sudan.
Anche nella capitale sudsudanese Giuba, il Santo Padre, rivolto ai politici locali, ha denunciato i “giri iniqui di denaro”, le “trame nascoste per arricchirsi”, gli “affari clientelari” e la “mancanza di trasparenza” che hanno fatto piombare il Paese nel precipizio. Ai vescovi, sacerdoti e religiosi sudsudanesi, il Pontefice ha chiesto di “alzare la voce contro l’ingiustizia e la prevaricazione, che schiacciano la gente e si servono della violenza per gestire gli affari all’ombra dei conflitti”. Durante la preghiera ecumenica presso il Mausoleo “John Garang”, Francesco ha ribadito che “il tribalismo e la faziosità che alimentano le violenze nel Paese” non devono in alcun modo intaccare i “rapporti interconfessionali”. Al contrario, la “testimonianza di unità dei credenti” dovrebbe riversarsi sul popolo, gettando semi di pace in un terreno finora avvelenato dai risentimenti della guerra.
Il motto del viaggio pontificio nella Repubblica Democratica del Congo è: “Tutto si riconcilia in Cristo”. Quello del viaggio in Sud Sudan è: “Prego perché tutti siano una sola cosa” (Gv 17). Come accennavamo nell’editoriale della scorsa settimana, la vera pace non è quella degli uomini ma quella che ci dona Gesù. Un messaggio valido per l’Africa ma anche per l’Ucraina e per il mondo intero. Con questo spirito, papa Francesco conclude il suo 39° sofferto viaggio internazionale, alle soglie del decennale del suo pontificato.