La provocazione è arrivata martedì scorso, durante un incontro al 40° Meeting di Rimini. Intervenuto sul tema Imparare a guardare il mondo con gli occhi di papa Francesco, il preposito generale della Compagnia di Gesù, padre Arturo Sosa Abascal SJ, ha espresso un pensiero molto in linea con quello del Pontefice (sudamericano e gesuita come lui): il secolarismo non è un male di questo tempo ma un dato di fatto con cui, volenti o nolenti, bisogna confrontarsi. Non solo: la secolarizzazione può rappresentare un’opportunità per annunciare il Vangelo in modo veramente autentico, proprio come ai primordi della cristianità.
“Occorre che noi impariamo dal mondo come oggi si presenta, pure secolarizzato, a trarre i segni che lo Spirito ci manda”, ha dichiarato il superiore generale dei gesuiti. In questo, padre Sosa si è dimostrato piuttosto coerente con il carisma della sua congregazione. Lo stesso Sant’Ignazio di Loyola aveva vissuto la sua vocazione nel bel mezzo di un “cambiamento d’epoca” (per usare parole di papa Francesco): il XVI secolo, infatti, è il secolo della scoperta delle Americhe, della Riforma protestante, del Concilio di Trento, della rivoluzione scientifica, dell’affermazione degli stati nazionali. Di fronte a cambiamenti tanto vorticosi e burrascosi, Sant’Ignazio si rese conto di quanto la Chiesa non potesse rimanere ancorata agli schemi del passato o al “si è sempre fatto così”. Era necessario riscoprire integralmente il Vangelo senza compromessi ma, soprattutto, tornare all’incontro diretto con Cristo (senza però negare l’intermediazione sacerdotale e istituzionale, come faceva Lutero!), attraverso il nuovo approccio degli esercizi spirituali e il discernimento. Vino nuovo in otri nuovi, dunque.
Se però l’epoca in cui visse Ignazio, pur caratterizzandosi per una prima spaccatura nella Chiesa e per un suo indebolimento, era ancora fortemente segnata da una coscienza religiosa, il XXI secolo deve fare i conti con la rimozione di Dio. Perché, allora, la secolarizzazione odierna, lungi dall’essere una sciagura, può rappresentare un’opportunità e, forse, persino una grazia? In primo luogo, va sottolineato che l’eclissi di Dio, a lungo andare, si accompagna ad una perdita di potere da parte della Chiesa, il cui destino (nonostante in Occidente, si riscontrino sacche di clericalismo ancora molto forti), sembra essere quello di un forte allentamento dei suoi legami politici e delle sue connessioni con i potentati economici. Ciò potrebbe rappresentare un’occasione unica: il ritorno ad una Chiesa povera, nel senso evangelico del termine, la cui ricchezza sarà unicamente identificabile con il Vangelo, con l’Eucaristia e con lo Spirito Santo.
A ciò va aggiunto che le società secolarizzate, più che atee, sono, più propriamente, idolatriche. Il materialismo vive infatti di dottrine, di convenzioni sociali, di protocolli e di ritualità che, pur apparendo seri e credibili, sono destinati ben presto a rivelare tutta la loro falsità e inconsistenza. Anche chi è stato abituato a vivere nella menzogna istituzionalizzata – si pensi alla società dell’immagine e dei social, in cui vive immersa la maggior parte dei millennials – conserverà sempre nel profondo del cuore un’inconfessabile sete di Dio. Chi è vissuto lontano dalla fede per tutta la sua vita, patendone un conseguente senso di vuoto esistenziale, il giorno che incontrerà dei cristiani veri non potrà che rimanerne conquistato. L’arretramento della “Chiesa del potere” corrisponderà all’implosione di tutte le negatività che hanno fatto allontanare migliaia di fedeli negli ultimi decenni: modernismo, proselitismo, corruzione, pedofilia, bigottismo. Al contrario, le comunità che saranno rimaste fedeli al Vangelo (o che l’avranno riscoperto) e obbedienti allo Spirito Santo, attrarranno sempre più fedeli.
Profetiche sono, in tal senso, le parole del giovane teologo Joseph Ratzinger che, nel 1969, scriveva: “Dalla crisi odierna emergerà una Chiesa che avrà perso molto. Diventerà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi. Non sarà più in grado di abitare molti degli edifici che aveva costruito nella prosperità. Poiché il numero dei suoi fedeli diminuirà, perderà anche gran parte dei privilegi sociali”. Ciononostante, questa Chiesa umiliata e rinnovata “troverà di nuovo e con tutta l’energia ciò che le è essenziale, ciò che è sempre stato il suo centro: la fede nel Dio Uno e Trino, in Gesù Cristo, il Figlio di Dio fattosi uomo, nell’assistenza dello Spirito, che durerà fino alla fine. Ripartirà da piccoli gruppi, da movimenti e da una minoranza che rimetterà la fede e la preghiera al centro dell’esperienza e sperimenterà di nuovo i sacramenti come servizio divino e non come un problema di struttura liturgica”. La crisi in cui era entrata la Chiesa, all’indomani del Concilio Vaticano II, secondo il futuro papa Benedetto XVI, cinquant’anni fa era soltanto all’inizio. Tuttavia, al termine di “tempi molto difficili” e di “grandi sommovimenti”, in cui non sarà più né “la Chiesa del culto politico”, né “la forza sociale dominante”, essa tornerà ad essere soltanto “la Chiesa della fede”, quindi, “conoscerà una nuova fioritura e apparirà come la casa dell’uomo, dove trovare vita e speranza oltre la morte”.
Stiamo forse qui tessendo le lodi della secolarizzazione e dell’ateismo trionfante? No di certo. Non dobbiamo, tuttavia, dimenticarci che, come ci ricorda il Vangelo (cfr Mt 18,20; Gv 6,1-14), la forza della Chiesa non è necessariamente nel numero dei suoi discepoli, né nelle risorse a disposizione. Se è vero che “le porte degli inferi non prevarranno” (Mt 16,18), la Chiesa rimarrà tale anche se composta di un “piccolo gregge”. Come affermò una volta il compianto cardinale Carlo Caffarra, “il Signore ama vincere con un piccolo esercito”. All’inizio, dopotutto, non erano soltanto in dodici?