La dignità del lavoro nel tempo dell’intelligenza artificiale

Intelligenza artificiale
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Per il secondo anno di seguito, sarà un Primo Maggio atipico. Niente manifestazioni sindacali, niente concertone con il pubblico festante in presenza. L’assenza di retorica, però, aiuterà a riflettere l’opinione pubblica su uno dei grandi interrogativi di questi anni: come cambia il lavoro nel XXI secolo e nell’era delle pandemie? Anche in questo ambito, viviamo cambiamenti così rapidi e tumultuosi che è molto difficile comprenderne la portata e le conseguenze nel futuro immediato.

Le problematiche attuali necessitano un approccio immediato e un approccio di prospettiva. Nell’immediato, cogliamo ciò che è drammaticamente sotto gli occhi di tutti: nel settore privato, da un anno a questa parte, tantissime persone hanno perso il lavoro, mentre le varie forme di ristori e sussidi si sono rivelate abissalmente al di sotto delle aspettative. Il settore della ristorazione – per molti anni fiore all’occhiello del Made in Italy assieme alla moda – è messo in ginocchio dai coprifuoco e dalle restrizioni a tutti i livelli. Le crisi economiche si sono ripetute ciclicamente nel corso degli ultimi secoli ma non era mai successo che agli imprenditori di un determinato settore fosse impedito di lavorare in modo tanto prolungato e generalizzato. Al punto che molti di loro, anche in età avanzata, sono stati costretti a valutare un cambio di attività, con tutte le incognite e le angosce che può comportare una scelta così radicale.

Senza voler minimamente banalizzare la crisi sanitaria, nessuno potrà mai negare che bloccare ampi settori strategici nella vita di un paese, rappresenta un gioco a somma negativa, in cui – quantomeno a livello nazionale – non ci guadagna praticamente nessuno. Anche il settore pubblico e persino le poche grosse imprese private che resistono e guadagnano terreno (a partire dagli store alimentari e dal comparto informatico), rischiano di subire un grave contraccolpo a medio-lungo termine.

Si parla molto, poi – e spesso in termini entusiastici – di smart working. Se lavorare da casa ha i suoi indubbi vantaggi sia per l’individuo che lo pratica che per la collettività (meno tempo trascorso in mezzo al traffico, più flessibilità ed efficienza, meno inquinamento e affollamento, più tempo da trascorrere con la propria famiglia), non mancano i risvolti negativi: meno socializzazione tra pari; relazioni lavorative dall’approccio efficientista, freddo e spersonalizzato; contraccolpo negativo per gli indotti dei distretti lavorativi, bar e rosticcerie in primis). In sintesi: se lo smart working rappresenta senz’altro un’opportunità per chi lo voglia liberamente praticare (a partire, ad esempio, dalle madri di bambini fino ai 13-14 anni), è difficile pensare che questa pratica possa rappresentare universalmente il nostro futuro.

Altra incognita è rappresentata dal Green New Deal. Da un lato, è assolutamente apprezzabile la crescita di una coscienza ecologica universale. Dall’altro, la concentrazione delle sovvenzioni statali sulle aziende e sulle industrie in grado di fronteggiare una rivoluzione verde, minaccia di lasciare al loro destino le imprese che, per un motivo o per un altro, non potranno affrancarsi dalle tecnologie più inquinanti. Per non parlare dei prezzi esorbitanti ed elitari della maggior parte dei prodotti green, auto ecologiche in primis.

La gente in piazza per mancanza di lavoro in Italia è solo l’aspetto più superficiale e contingente di una crisi molto più ampia. Si prospettano forme di disoccupazione ben più strutturali e legate al cambiamento d’epoca che stiamo attraversando. L’informatizzazione porterà alla cancellazione di milioni di posti di lavoro. Per certi versi, un film già visto, se si pensa ai movimenti luddisti della prima rivoluzione industriale: artigiani che andavano a sabotare le prime macchine a vapore, colpevoli di togliere loro l’unica possibile fonte di reddito. I due secoli successivi hanno dimostrato che, fortunatamente, nessuna delle innovazioni tecnologiche successive ha mai provocato disoccupazioni di massa o, per lo meno, ciò non è mai avvenuto per un tempo eccessivamente lungo.

Oggi, però, l’utopismo sembra tornato di moda e c’è chi arriva a ipotizzare una sorta di reddito di cittadinanza universale in grado di tappare tutte le falle provocate da una probabile “disoccupazione tecnologica” di massa. Il problem solving, anche a livelli molto complessi, sarà completamente demandato all’intelligenza artificiale. Persino la figura del giornalista, tra qualche tempo, risulterà completamente obsoleta, vista la potenza degli algoritmi, che determineranno le notizie di cui ognuno di noi avrà bisogno… Può, però, l’uomo vivere da “mantenuto” senza produrre alcun bene, né materiale, né morale, né intellettuale per la totalità dei suoi giorni? Può esistere un essere umano puramente consumatore? Ha senso un essere umano totalmente disabituato all’allenamento fisico e mentale?

A dare una risposta a questi dubbi etico-pratici, è, ancora una volta, il Magistero della Chiesa Cattolica che, com’è noto, individua chiavi di lettura a tutte le problematiche sociali, in anticipo sui tempi. Quest’anno, ad esempio, ricorre il 40° anniversario dalla pubblicazione di un documento di San Giovanni Paolo II ancor oggi attualissimo. Nell’enciclica Laborem Exercens (1981), Wojtyla sottolineava che “anche nell’epoca del «lavoro» sempre più meccanizzato, il soggetto proprio del lavoro rimane l’uomo” (LE 5). Il pontefice polacco riconosce che la tecnica “facilita il lavoro, lo perfeziona, lo accelera e lo moltiplica”. Inoltre, essa “favorisce l’aumento dei prodotti del lavoro, e di molti perfeziona anche la qualità”. Eppure, quando utilizzata male o a sproposito, “la tecnica da alleata può anche trasformarsi quasi in avversaria dell’uomo, come quando la meccanizzazione del lavoro «soppianta» l’uomo, togliendogli ogni soddisfazione personale e lo stimolo alla creatività e alla responsabilità; quando sottrae l’occupazione a molti lavoratori prima impiegati, o quando, mediante l’esaltazione della macchina, riduce l’uomo ad esserne il servo”.

Altro principio inamovibile della dottrina sociale: “il primo fondamento del valore del lavoro è l’uomo stesso”. Non certo, quindi, il prodotto, la macchina o l’intelligenza artificiale… “Lo scopo del lavoro – prosegue Wojtyla – di qualunque lavoro eseguito dall’uomo – fosse pure il lavoro più «di servizio», più monotono, nella scala del comune modo di valutazione, addirittura più emarginante – rimane sempre l’uomo stesso” (LE 7). Agli intrepidi paladini del Grande Reset e della digitalizzazione, queste parole non dicono nulla?