Roberto Allegri giornalista e scrittore, figlio del grande Renzo Allegri, ha scritto 60 libri di vario genere, alcuni dei quali sono dedicati a grandi figure della storia del cattolicesimo, tradotti anche all’estero.
Allegri collabora con il famoso settimanale CHI. Tra gli ultimi libri che ha scritto, c’è ne uno dedicato alla figura straordinaria di San Pio da Pietrelcina dal titolo “La dolcezza del fuoco” edizioni Ancora, un libro che ripercorre alcuni dei momenti della vita del frate con le stimmate.
“La dolcezza del fuoco” è un libro romanzato, con il quale non ti limiti a raccontare fatti e vicende cronologiche. Queste pagine vogliono trasmettere altro. Cosa esattamente?
Prima di tutto, se me lo permetti, vorrei spiegarti in quale progetto rientra questo libro. Da diversi anni infatti, mi sto dedicando alla narrativa religiosa, proseguendo una tradizione molto in voga in Italia fino agli anni Sessanta e cioè quella del romanzo cattolico. LA DOLCEZZA DEL FUOCO è il mio quinto romanzo di questo genere. Dopo aver raccontato della Passione di Cristo, della parabola del figliol prodigo, della vita di Madre Teresa e delle apparizioni dell’angelo a Fatima, ho voluto entrare nel cuore di Padre Pio cercando di immaginare le sue emozioni e i suoi pensieri più profondi di fronte al grande mistero delle stimmate che era entrato nella sua vita. Non una biografia quindi, non un testo di teologia ma un racconto introspettivo, scritto con le regole della fiction ma basato su fatti storici e documenti, attraverso il quale Padre Pio ormai anziano ripercorre le vicende legate ai segni della Passione di Cristo che per 50 anni ha portato sul suo corpo.
Entrare nel cuore e nella mente di San Pio da Pietrelcina non deve essere stato facile, le vicende che tu racconti si riferiscono ad un epoca lontana. Se dovessi spiegare brevemente chi era San Pio, cosa diresti?
Hai ragione, non è una cosa facile. Questo tipo di scrittura, cioè il romanzare vicende legate ad un santo, ha bisogno prima di tutto di un’accurata conoscenza della materia. E poi, di una grande capacità di immedesimarsi, capacità di sentirsi trasportare là, nel luogo e nel tempo di cui si vuole raccontare, nelle vesti di un osservatore che non solo vede quanto sta accadendo ma riesce anche a percepire pensieri, sentimenti, idee. Padre Pio è oggi uno dei santi più conosciuti e amati al mondo e sulla sua vita sono stati scritti centinaia e centinaia di volumi. Nel mio romanzo ho voluto presentarlo nella sua umanità. Padre Pio non era un supereroe, non aveva super poteri. Era il primo a meravigliarsi e anche spaventarsi per ciò che accadeva in lui. Nel 1918, improvvisamente, si ritrova ad avere su di sé le ferite di Cristo alle mani, ai piedi e al costato. Ferite aperte, sanguinanti che provocavano dolori fisici terribili. E che per Padre Pio erano anche motivo di confusione, domande, imbarazzo, paura. Erano piaghe che gli hanno fatto piovere addosso rimproveri, condanne, umiliazioni, insulti. E lui ha sempre sopportato tutto perché si fidava di Dio. Non capiva, non sapeva cosa davvero voleva dire tutto quanto gli accadeva ma si fidava ciecamente di Dio come un bambino si fida del proprio papà. Si sentiva indegno ma accettava perché era il volere del Cielo. Ad un certo punto, nel mio libro, faccio dire a Padre Pio durante un colloquio con padre Benedetto da San Marco in Lamis, Superiore Provinciale dei cappuccini di Foggia: <<Gesù ha voluto riversare in me, in questo recipiente così limitato, tutto se stesso. Vi rendete conto? Come posso portare un peso simile? Non sono capace di vivere un martirio come questo. Ed è un pensiero che mi tormenta peggio delle ferite. Cristo mi sta facendo simile a lui, sta vivendo in me ed io mi lamento! Sono indegno di un così grande amore!>> Padre Pio era un uomo. Ed il Mistero lo ha avvolto, penetrato in profondità. Lui era spaventato ma ha detto sì. Il “sì” coraggioso dei santi.
Tra le varie lettere di San Pio che hai riportato nel tuo libro, c’è ne qualcuna che ti ha colpito particolarmente?
Mi sono basato sull’epistolario di Padre Pio perché era l’unico modo per conoscerlo intimamente. Ma non è stato facile perché neppure con i suoi confessori Padre Pio entrava troppo nei dettagli riguardo alle stimmate. Era qualcosa che lo imbarazzava in maniera enorme in quanto si sentiva indegno di quanto gli stava accadendo. C’è una lettera, scritta a padre Benedetto il 24 novembre 1918, cioè due mesi dopo l’impressione delle stimmate, nella quale Padre Pio descrive il suo animo diviso in due. Dice: “In mezzo a tanto strazio amoroso e doloroso insieme, si avverano due sentimenti contrari: uno che vorrebbe respingere da sé il dolore, l’altro che lo desidera.” Le ferite facevano male, un male atroce. Solo per parlare di quelle delle mani, si sa che erano veri e propri buchi che passavano i palmi da parte a parte. Molti testimoni hanno riferito di avere visto la luce passare attraverso la ferita della mano. Un foro quindi. Solo a pensarci, si attorciglia lo stomaco. Chiunque, se può, rinuncerebbe a soffrire così. Ma quel dolore veniva da Gesù, era quello che anche Gesù aveva patito e perciò accettarlo voleva dire stare vicino a Cristo come non mai. Ecco perché una parte di Padre Pio desiderava quella sofferenza. Infatti, nella lettera, prosegue dicendo: “Il semplice pensiero di vivere per qualche tempo senza di un tale acuto ed amoroso martirio m’atterisce, mi spaventa, mi fa agonizzare”. Queste due emozioni opposte mi hanno colpito tantissimo. Riflettono davvero l’umanità di Padre Pio, la voglia di scappare via dal dolore ma anche l’amore per Gesù che supera tutto. In un’altra lettera dice: “Mi sembrava che una forza invisibile m’immergesse tutto quanto nel fuoco…Dio mio, che fuoco! Quale dolcezza!”. Da qui è nato il titolo del libro.
Di romanzi ne hai scritti davvero tanti e credo che non sia facile per uno scrittore focalizzare la propria attenzione su delle figure straordinarie. Perché hai deciso di parlare di Padre Pio?
Sento parlare di lui da quando sono nato. Mio padre lo aveva incontrato nel 1967 e poi nel 1968. E aveva segnato la sua vita perché poi papà è diventato il più importante biografo del santo, con oltre dodici libri scritti su di lui e tutti diventati dei best sellers. Nel corso della mia carriera di giornalista, ho scritto anch’io tanto su Padre Pio, articoli e interviste a chi lo aveva conosciuto o da lui aveva ricevuto una grazia. Però solo con un romanzo avrei avuto la possibilità di stare davvero vicino a lui. Ci ho lavorato in inverno, con la neve fuori, nel silenzio del mio studio, vicino alla stufa accesa. Leggevo le sue lettere, chiudevo gli occhi e stavo “in ascolto”, immaginavo di essere là a quel tempo, concentrato su ogni pensiero o emozione che sentivo nascermi dentro. E’ stata un’esperienza bellissima. Posso essere accanto a Padre Pio in ogni momento con la preghiera, ovviamente. Ma attraverso la scrittura lo avvertivo fisicamente qui con me, seduto alla scrivania a guardarmi mentre lavoravo. E’ difficile da spiegare, è la meraviglia del processo creativo. Ma anche la meraviglia di qualche “suggerimento” che sono certo è arrivato.
Il tuo ultimo libro s’intitola “L’amico dei poveri” dove racconti la figura di Fratel Ettore Boschini. Chi era quest’uomo?
Fratel Ettore, nato nel 1928 e morto nel 2004, era un religioso camilliano alto, con i capelli bianchi e arruffati, la veste logora e spesso coperta di polvere. Si aggirava di notte negli angoli più nascosti della Stazione Centrale di Milano, con la corona del Rosario in mano, alla ricerca dell’umanità sbandata, rifiutata, relegata nel degrado più assoluto. Le persone con niente al mondo, neppure un nome su un pezzo di carta, malati, drogati, alcolizzati: per fratel Ettore Boschini erano tutti uguali. Tutti suoi fratelli da soccorrere. In ognuno di loro, fratel Ettore vedeva Cristo. Nel 1979, in un tunnel sotto i binari della Stazione di Milano, fratel Ettore aveva allestito un “Rifugio” dove accoglieva i più disperati. In breve divenne famoso. Il cardinale Martini lo sosteneva, Giovanni Paolo II gli voleva bene e si incontrarono molte volte. Madre Teresa di Calcutta volle andare a visitarlo nel rifugio della Stazione e così fecero anche don Giussani e l’Abbè Pierre. E lo stesso cardinale Martini, di notte e in incognito, andava a vedere di persona, ammirato, la dedizione con cui Ettore e i suoi volontari si occupavano dei poveri più poveri. <<Siete pazzi>>, diceva Martini, <<siete pazzi ma per vivere il Vangelo bisogna essere un po’ pazzi!>> Sono migliaia le persone che fratel Ettore ha salvato, riconciliato con la vita e con Dio, alle quali ha restituito una dignità che le avversità e, spesso, la ferocia di una società egoista, avevano distrutto. Questo fa di lui un eroe. Un eroe umano e anche un eroe della fede, tanto è vero che nel dicembre del 2017, l’arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, ha aperto ufficialmente il processo per la sua beatificazione. Un personaggio incredibile quindi, un grande santo dei poveri che tutti dovrebbero conoscere.
Rita Sberna