La rabbia, lo stordimento, la paura, l’angoscia. Due anni senza requie che hanno messo alla prova la serenità e persino la fede di molti. Eppure, quasi come in un uragano, il cui centro rimane incredibilmente calmo, si ripete il prodigio della Resurrezione di Nostro Signore. In questo 2022, il cammino verso la Pasqua ci obbliga a soffermarci con più attenzione del solito sul mistero della Passione e Morte di Gesù. La Pace e il Perdono, doni della sua Resurrezione, non si ottengono se prima non ci si immerge profondamente nello spirito della Via Dolorosa e del Calvario. Non possiamo essere redenti se prima non guardiamo in faccia l’orrore e lo scandalo di un Dio che si lascia ammazzare senza pietà.
Lungo il suo calvario, dopo aver attraversato la tempesta della pandemia (forse in fase declinante ma non del tutto conclusa), l’umanità si ritrova di fronte al flagello della guerra. Una guerra che, a più riprese, papa Francesco ha definito “sacrilega”, in primo luogo perché vilipende la sacralità della vita umana, sfregia il volto dell’uomo fatto a immagine di Dio. C’è un errore ricorrente, diffusissimo anche tra i cattolici, che induce a dividere semplicisticamente l’umanità in “buoni” e “cattivi”, laddove, ovviamente, i cattivi sono sempre “gli altri”. Altro grave errore in cui si ricade troppo spesso: la categorizzazione delle persone, specie quando si tratta di avversari. Cosicché, senza conoscere nulla dell’altro, lo si disprezza esclusivamente sulla base della sua appartenenza politica, religiosa o altro.
Quanto è immensamente diverso da quella logica il Triduo Pasquale! Le letture di questi giorni riescono a scardinare brutalmente il mastodontico palazzo (senza fondamenta) delle nostre false sicurezze. Da Giuda che si stupisce nell’essere indicato come il traditore (cfr Mt 26,25) a Pietro che stacca l’orecchio a una delle guardie, venendo severamente ammonito da Gesù (cfr Gv 18,10-11), gli Apostoli somigliano a noi, più nella pochezza che nella santità. Chi crede – e sono molti più di quanto si pensi – di non avere nessun peccato da confessare, non potrà mai perdonare nel modo che Cristo indica. Per fare entrambe le cose – confessare i peccati nostri per poi perdonare i peccati altrui – dobbiamo necessariamente passare per l’orrore e lo scandalo del Dio in Croce. È proprio sulla Croce, che Gesù insegna la non banalità del perdono: non siamo mai noi a perdonare direttamente ma dobbiamo chiedere al Padre di farlo a nostro beneficio (cfr Lc 23,34).
La Croce è tanto umanamente inaccettabile – emblematico è, a riguardo, l’atteggiamento di Pietro (cfr Mt 16,22) – quanto necessaria: se non te la carichi sulle spalle, niente perdono, niente pace, niente salvezza. Il Vangelo non ammette mezze misure, perché il suo fondamento è l’Amore e “la vera misura dell’amore è amare senza misura” (Sant’Agostino). Ha senso frequentare per anni ininterrottamente parrocchie e movimenti, comunicarsi più volte a settimana, non perdersi nemmeno una catechesi dei più rinomati predicatori del momento, per poi indulgere in un atteggiamento da eterni creditori? Con Dio siamo sempre in debito ed è soltanto Lui che può “condonare” questo debito.
Quando Renzo Tramaglino piomba nel lazzaretto alla ricerca di Lucia, non sapendo ancora se è viva o meno, e grida di volersi vendicare di don Rodrigo, fra Cristoforo lo rimbrotta aspramente chiamandolo “sciagurato” e “verme della terra” (Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, cap. XXXV). Poi, di fronte agli impulsivi propositi di perdono di Renzo, lo invita ad interrogarsi sull’autenticità dei suoi sentimenti. Soltanto chi è stato perdonato (fra Cristoforo si era convertito molti anni prima, dopo aver ucciso un uomo) può indicare agli altri la strada del perdono. Cosicché, dopo essersi reso conto della propria imperfezione, Renzo andrà da don Rodrigo e, trovandolo agonizzante e inoffensivo, comprenderà che il suo storico nemico ha urgente bisogno del suo perdono.
Non tutti dobbiamo necessariamente passare per un’esperienza di perdono radicale quanto quella – di fantasia ma credibile – di Renzo con don Rodrigo. Necessariamente, però, il perdono dev’essere radicale. Il perdono non ammette calcoli, né mediazioni, deve andare oltre le nostre stesse forze, dev’essere divino. Un vero perdono deve sorprendere, inquietare, interrogare, persino scandalizzare. L’immagine che vale questa Pasqua è infatti quella di Irina e Albina durante la Via Crucis al Colosseo. Una “sorellanza” germogliata tra le corsie del Campus Biomedico di Roma. Irina è un’infermiera ucraina, Albina è una specializzanda russa. Di fronte alla sofferenza dei malati non ci sono nazionalità in guerra che giustifichino una divisione o un’avversità. Le due giovani donne sono amiche e hanno continuato ad esserlo anche dopo lo scoppio del conflitto. Nemmeno le rimostranze dell’ambasciatore ucraino presso la Santa Sede hanno impedito a Irina e Albina di partecipare fianco a fianco alla Via Crucis, sotto lo sguardo di papa Francesco.
Beninteso: le ragioni addotte da taluni sull’inopportunità della presenza di una donna russa affiancata a un’ucraina nel contesto dei riti della Settimana Santa possono essere comprensibili sul piano della diplomazia. Non tutti avrebbero compreso, qualcuno avrebbe potuto reagire in modo imprevedibile, i tempi del perdono sono lunghi e incerti, ecc. Sul piano del Vangelo, invece, quelle argomentazioni non trovano giustificazione, perché il perdono e la pace sono esigenti, osiamo dire intransigenti. Proprio perché passa attraverso la Croce, la Resurrezione non ammette compromessi, né tantomeno si pone il problema di scontentare qualcuno. Se ogni essere umano vale il sangue di Cristo, se quella morte ignominiosa è servita a qualcosa, allora Cristo è morto per gli ucraini, per i russi e per chiunque di noi, ignobile peccatore, eppure fatto per il Cielo. Siamo tutti ladroni: insultare Cristo o, al contrario, supplicarlo di portarci con Lui in Paradiso è soltanto una nostra scelta.