In una fase storica tempestosa, in cui il dramma della guerra in Ucraina, si è andato intrecciando con la recrudescenza (vera o presunta) del Covid e con l’allarme sui cambiamenti climatici, questa settimana, è tornata fortemente alla ribalta un’altra delle grandi emergenze di questo tempo: quella migratoria. Per la sua posizione geografica nel cuore del Mediterraneo, l’Italia è giocoforza, il Paese più coinvolto negli sbarchi, pur non essendo la meta privilegiata per chi viene dall’Africa o dal Medio Oriente, ma soltanto una terra di passaggio.
Il tema è stato affrontato in modo sistematico dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, in due occasioni distinte: la visita a Lampedusa, assieme alla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, poi, l’intervento alla 78° Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York. L’incontro di Lampedusa, che segue di un paio di mesi il Memorandum d’intesa tra la Tunisia e la stessa Unione Europea, è – con le dovute cautele – un segnale positivo in quanto ha espresso, a livello embrionale, una volontà comune di contrastare l’immigrazione illegale e, contestualmente, il traffico di esseri umani. Sarà il tempo a dirci se questo spirito di collaborazione tra partner europei – per quanto tardivo – si tradurrà in atti concreti o rimarrà un fuoco di paglia.
Ancor più vigoroso è stato il discorso di Meloni alle Nazioni Unite, dove la premier ha discusso di migrazioni in modo particolare con il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdoğan, alla guida di un Paese che, da almeno un decennio, viene finanziato per accogliere da solo la stragrande maggioranza dei profughi dall’Asia. Al Palazzo di Vetro, Meloni ha toccato un nervo scoperto: la strumentalizzazione del fenomeno migratorio si manifesta innanzitutto con la “tratta dell’immigrazione di massa”, posta in essere da persone che illudono chi lascia il proprio Paese, sognando un futuro migliore e, molto spesso, va incontro a “una tomba sul fondo del mar Mediterraneo”. È a questa gente – ha detto la presidente del Consiglio – che un certo approccio ipocrita in tema di immigrazione ha fatto arricchire a dismisura. Noi vogliamo combattere la mafia in tutte le sue forme, e combatteremo anche questa. Il punto è che combattere le organizzazioni criminali dovrebbe essere un obiettivo che ci unisce tutti, e che investe anche le Nazioni Unite, che investe anche questo luogo”.
Non basta, però, soltanto combattere le nuove schiavitù. Meloni ha ricordato che “l’Africa non è un continente povero. È al contrario un continente ricco di risorse strategiche. Detiene la metà di quelle minerarie del mondo, tra cui abbondanti terre rare, e il 60% delle terre coltivabili, spesso inutilizzate. L’Africa non è un continente povero, ma è stato spesso, ed è, un continente sfruttato. Troppo spesso gli interventi delle Nazioni straniere nel continente non sono stati rispettosi delle realtà locali. Spesso l’approccio è stato predatorio, e ciononostante perfino paternalistico”. Da qui l’auspicio della premier a un “cambio di rotta”, nella misura in cui “l’Africa non ha bisogno di carità, ma di essere messa in condizioni di competere ad armi pari, di investimenti strategici che leghino i destini delle nazioni con progetti reciprocamente vantaggiosi”, come il “Piano Mattei per l’Africa”, un piano di cooperazione governativo che prende il nome da Enrico Mattei (1906-1962), “un grande italiano che sapeva conciliare l’interesse nazionale italiano con il diritto degli Stati partner a conoscere una stagione di sviluppo e progresso”. Seppure le politiche migratorie del governo italiano non siano state sempre impeccabili (gli sbarchi di immigrati irregolari hanno toccato i massimi storici, nonostante le iniziali promesse di blocco navale da parte dell’esecutivo), le parole di Giorgia Meloni non vanno sottovalutate, in quanto denunciano in modo non scontato le piaghe del neocolonialismo e delle nuove schiavitù, secondo principi e valori che non sono né di sinistra, né di destra ma rappresentano una scelta di civiltà.
Al discorso di Meloni alle Nazioni Unite è seguita di pochi giorni la breve visita di papa Francesco a Marsiglia, in vista della sessione conclusiva dei Rencontres Méditerranéennes (22-23 settembre 2023). Al cuore dell’evento marsigliese vi sono proprio il fenomeno migratorio e la fratellanza tra i popoli, le culture e le religioni. Le tragedie nel Mediterraneo, che il pontefice argentino deplora da un decennio vedono tra le loro vittime persone di nazionalità, appartenenza religiosa ed etnia diverse. Assieme ai leader religiosi convenuti per i Rencontres Méditerranéennes, il Papa ha ribadito: “Ci troviamo di fronte a un bivio di civiltà. O la cultura dell’umanità e della fratellanza, o la cultura dell’indifferenza: che ognuno si arrangi come può”.
È significativo che il Santo Padre abbia indicato la fede religiosa – qualunque essa sia – in contrapposizione al “tarlo dell’estremismo” e alla “peste ideologica del fondamentalismo che corrodono la vita reale delle comunità”. Marsiglia è stata indicata da Francesco come un “modello di integrazione” e un “mosaico di speranza”. Il Pontefice ha menzionato le parole di un santo vescovo cristiano, Cesario di Arles (ca. 470-542), che affermava: “Nessuno custodisca nel suo cuore sentimenti di odio per il suo prossimo, ma amore, perché chi odia anche un solo uomo non potrà starsene tranquillo davanti a Dio”. Al tempo stesso, citando un discorso del defunto presidente del Parlamento Europeo David Sassoli (1957-2022), il Papa ha ricordato: “A Bagdad, nella Casa della Saggezza del Califfo Al Ma’mun, s’incontravano ebrei, cristiani e musulmani a leggere i libri sacri e i filosofi greci”.
Il principio della fratellanza e della collaborazione tra i popoli non è incompatibile con quello della legalità e del contrasto alle nuove schiavitù e al traffico di esseri umani (anch’esso parte non secondaria del magistero sociale di papa Francesco). Sarebbe poco intelligente porre in contrapposizione il compito della politica di stabilire ordine e regole, con quello della religione di animare principi e di risvegliare l’umano. Il punto davvero difficile da realizzare è la conciliazione tra la sfera civile e quella religiosa, affinché si armonizzino reciprocamente e nessun uomo debba vivere in modo schizofrenico la propria fede, qualora ricopra cariche istituzionali o coltivi un impegno politico. Le problematiche legate alle migrazioni sono soltanto uno dei tanti ambiti critici in cui religione e politica potrebbero e dovrebbero collaborare costruttivamente, senza manicheismi e conservando una visione il più possibile onnicomprensiva del problema.