Ottobre 1962: quando il mondo fu sull’orlo dell’abisso

Papa Giovanni XXIII - John Fitzgerald Kennedy - Nikita Kruscev
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Dal dopoguerra ad oggi, si è spesso fatta molta retorica intorno al concetto di memoria. Vengono giustamente commemorate con giornate ad hoc tragedie epocali come l’Olocausto nazista e, da qualche anno, anche il genocidio delle Foibe istriane. La memoria collettiva, però, è sempre molto selettiva e spesso ideologicamente orientata. Sarebbe bello ed opportuno, commemorare anche quegli eventi che, per quanto drammatici, presentano un lieto fine o, comunque, hanno il merito di indicare una strada costruttiva e unitiva per l’umanità intera.

Pochissimo si sta facendo in questi giorni, ad esempio, per ricordare il sessantennale della drammatica crisi diplomatica dei missili a Cuba, verificatasi nell’ottobre 1962. Non meno sottovalutato, nella stessa vicenda, è il ruolo di San Giovanni XXIII che, forte del suo passato nella diplomazia vaticana, seppe intervenire tempestivamente e disinnescare un potenziale conflitto nucleare.

A monte di quella crisi epocale, vi fu, l’anno precedente, un tentativo di invasione statunitense alla Baia dei Porci. A seguito di quell’episodio, il dittatore cubano Fidel Castro chiese aiuto all’Unione Sovietica, in chiave antiamericana. Cuba non faceva parte del Patto di Varsavia, tuttavia l’emergenza spinse il regime castrista a stringere un’alleanza militare sui generis con Mosca. Il leader sovietico Nikita Kruscev ordinò quindi l’installazione di una base missilistica a Cuba, in grado di dispiegare armi a media gittata, a sole 90 miglia dalla Florida. Sei di quelle basi, avrebbero veicolato missili R-12 a media gittata, in grado di trasportare testate termonucleari. I sovietici intervennero a difesa di Cuba anche per un tornaconto della propria alleanza militare, nel tentativo di controbilanciare lo schieramento nucleare della NATO in Turchia.

L’operazione, avviata dai sovietici nell’estate 1962, fu svelata in mondovisione dal presidente americano John Fitzgerald Kennedy, il 22 ottobre. L’intera amministrazione statunitense era unanimemente intenzionata ad impedire ai sovietici l’installazione dei missili. Kennedy, tuttavia, optò per la linea morbida della “quarantena” marittima, che imponeva l’ispezione a qualunque nave diretta a Cuba. Si preferì quindi evitare il “blocco navale”, trattandosi, in quel caso, di un’opzione che preludeva allo scontro militare. Nessun cargo sovietico controllato in quei giorni conteneva materiale bellico, mentre lo stesso Kruscev iniziò a pensare a una marcia indietro.

Rimaneva comunque in piedi, il tema dello smantellamento dei missili. Il 26 ottobre, Kruscev promise di ritirare le basi, se Washington avesse promesso di non invadere Cuba. In cambio, il Cremlino chiese l’eliminazione delle basi americane in Turchia (che, di fatto, però, non venne mai attuata). Il 28 ottobre la crisi diplomatica fu ritenuta superata, mentre il 20 novembre fu posta fine alla quarantena navale.

La terza guerra mondiale era scongiurata e, con essa, il pericolo di una deflagrazione nucleare. Per una settimana il mondo era rimasto col fiato sospeso, con milioni di persone a fare la fila per accaparrarsi cibo e carburanti. La crisi dei missili a Cuba si stampò nell’immaginario collettivo come il punto più drammatico della Guerra Fredda, ispirando, tra l’altro, la stesura di uno dei capolavori di Bob Dylan: A Hard Rain’s Gonna Fall. Da quel momento, i rapporti diplomatici tra i due blocchi presero una piega diversa, all’insegna dell’appeasement e della distensione, sebbene la Guerra Fredda non sarebbe terminata prima di un quarto di secolo. I principali protagonisti della vicenda, Kennedy e Kruscev (entrambi “colombe” in mezzo ai numerosi “falchi” delle rispettive amministrazioni), pagarono ad altissimo prezzo le loro scelte: l’uno fu assassinato a Dallas il 22 settembre 1963, l’altro fu costretto alle dimissioni dal Politburo del Partito Comunista Sovietico l’anno successivo.

Nelle delicatissime trattative che scaturirono in quelle due lunghe drammatiche settimane, il ruolo della Santa Sede e di papa Roncalli è rimasto occulto per quasi quarant’anni, emergendo soltanto all’apertura degli archivi sovietici. Giovanni XXIII fu interpellato personalmente da Kennedy, dopodiché lanciò il suo appello ai potenti: “Con la mano sulla coscienza, che ascoltino il grido angoscioso che, da tutti i punti della terra, dai bambini innocenti agli anziani, dalle persone alle comunità, sale verso il cielo: Pace! Pace!”. Anche Kruscev, primo leader sovietico ad avviare dei contatti con la Santa Sede (era ancora prematuro parlare di relazioni diplomatiche in senso stretto) rimase conquistato dalle parole del Pontefice e lo ascoltò con attenzione e rispetto. Al punto che, il 27 dicembre dello stesso anno, per la prima volta, la Pravda, il giornale di regime sovietico, commentò positivamente il messaggio natalizio Urbi et Orbi del Papa.

A distanza di sessant’anni esatti, un altro papa, Francesco, sta lottando con tutte le sue forze per mettere fine al conflitto tra Russia e Ucraina. Inquietante coincidenza: per la prima volta dalla crisi cubana, i due successori di Kennedy e Kruscev – Joe Biden e Vladimir Putin – hanno evocato lo spettro di una guerra nucleare. Il Santo Padre, da ormai otto mesi, tuona contro la barbarie che si sta consumando ai confini dell’Europa. Questa volta, però, il Vescovo di Roma pare inascoltato. Il punto non è affatto la minore o maggiore credibilità di Francesco rispetto al suo predecessore ma il livello complessivo dell’umanità al giorno d’oggi.

Milioni di cattolici o non cattolici, ai tempi della crisi di Cuba pregarono intensamente: oggi c’è da scommettere che, pur non mancando le preghiere, intorno al destino del mondo regni una generalizzata indifferenza, accompagnata da una qualità generale della fede molto più bassa. La pace e la guerra sono indubbiamente determinate dalle scelte dei potenti ma il vero motore dei cambiamenti sono i popoli. Da anni, accanto alla voce terrena del Successore di Pietro, risuona quella celeste della Vergine Maria che, da Medjugorje, insiste a ricordare ai suoi figli che la pace è in pericolo e che l’umanità sta scegliendo la via della perdizione. Sotto il suo manto, però, saremo salvi. Riescono ancora riescono a scuoterci queste parole? Hanno ancora un significato per noi?