Pasolini, tra nostalgia di Dio e inquietanti “profezie laiche”

Pier Paolo Pasolini
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Un eretico, nell’accezione corrente, è qualcuno che va contro la Verità. Non è tuttavia una persona integralmente menzognera. Tra i grandi eretici del passato – pensiamo a Martin Lutero (1483-1547) o a Giordano Bruno (1548-1600) – non sono mancate persone assetate di verità ma inciampate in errori che non hanno voluto riconoscere. Un eretico è quindi qualcuno che riesce a cogliere, anche in maniera molto lucida, frammenti di verità, cadendo però nella trappola dell’assolutizzazione, non essendo capaci di guardare alla verità nell’insieme. In questo senso, non sono mancati eretici degni di rispetto, in quanto capaci, a modo loro, di profezia. Nel secolo scorso, uno di questi “irregolari” è stato Pier Paolo Pasolini (1922-1975).

Lo scrittore, poeta e regista bolognese, di cui oggi si celebra il centenario della nascita, ha avuto la peculiarità di porsi in contraddizione con pressoché tutte le ideologie e i sistemi di pensiero del suo tempo. Rinnegata la fede cristiana in gioventù, aderì al marxismo ma riuscì a diventare una spina nel fianco anche per gli intellettuali di sinistra, di cui intuì, con decenni d’anticipo, la loro omologazione al sistema. Al tempo stesso, Pasolini è stato il più grande critico del capitalismo e, in particolare, del consumismo, in cui intravede i germi di una nuova subdola dittatura.

Pasolini è uno di quegli atei assillati da una tremenda nostalgia di Dio. “Tra i libri sparsi, pochi fiori / azzurrini, e l’erba, l’erba candida / tra le saggine, io davo a Cristo / tutta la mia ingenuità e il mio sangue”, scrive il poeta. Essendo cresciuto in un ambiente rurale, corroborato dalla tradizione e dal calore della vita comunitaria, non riesce a riconoscersi nella Chiesa del dopoguerra, modernizzata e incardinata nella civiltà industriale e nel benessere di massa. Quella di Pasolini, scrive il direttore della Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro sj, è una “religiosità di tipo istintivo, informe, lontana dalla sistematizzazione dei dogmi del cristianesimo inteso come religione istituzionale”: Pasolini, “come figlio del suo secolo, non poteva non razionalizzare tutto questo”.

A un amico sacerdote, il regista scriveva: “Sono bloccato, caro don Giovanni, in un modo che solo la Grazia potrebbe sciogliere. La mia volontà e l’altrui sono impotenti. E questo posso dirlo solo oggettivandomi e guardandomi dal suo punto di vista. Forse perché io sono da sempre caduto da cavallo: non sono mai stato spavaldamente in sella (come molti potenti della vita, o molti miseri peccatori): sono caduto da sempre, e un mio piede è rimasto impigliato nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il corpo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso né risalire sul cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio”.

La nostalgia per una religiosità primitiva emerge anche in alcune delle sue prime opere cinematografiche come Il Vangelo secondo Matteo (1964) o nel precedente, meno noto mediometraggio, La ricotta (1962). Pasolini, tuttavia, maestro nell’arte dei contrasti, riesce a mettere su una Passione di Cristo tutta sui generis, dove alla “sgangheratezza” dei suoi attori dilettanti presi dalla strada, fa da contrappunto la sacralità e la solennità della musica di Bach in sottofondo.

Se da un lato, Pasolini è incompatibile con la Chiesa modernizzata, ancor più forte è il suo disagio nei confronti delle nuove religioni secolari. Non ama il ’68, con le sue finte rivoluzioni borghesi, e si schiera con i poliziotti, veri proletari, selvaggi come lui. Il climax della collisione tra Pasolini e il suo tempo avviene pressappoco nell’ultimo lustro della sua vita. È l’epoca degli Scritti corsari sul Corriere della Sera e delle apparizioni dell’intellettuale bolognese nei dibattiti televisivi. Proprio quella televisione che ferocemente criticava era usata da Pasolini per calcare il ruolo di fustigatore della mediocrazia allora gli albori. Un paradosso che solo un intellettuale del suo calibro poteva fronteggiare con nonchalance, uscendone quasi vincente.

In quegli ultimi anni, il suo attacco alla modernità si era fatto sempre più organico e onnicomprensivo: “Non c’è infatti niente di religioso – scrive Pasolini – nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due Persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s’intende, vanno ancora a messa la domenica: in macchina)”. Tanto cresceva la sua angoscia per la dispersione individualista lobotomizzante, tanto più si accendeva in lui la nostalgia per il sacro.

Anche per questo, Pasolini era contrario all’aborto, ai suoi tempi già diffuso ma non ancora legalizzato. Non solo perché lo reputava un “omicidio” ma anche perché lo considerava il punto di non ritorno di una libertà sessuale ormai passata da tabù a “convenzione”, “obbligo”, “dovere sociale”, “ansia sociale”, “caratteristica irrinunciabile della qualità di vita del consumatore”. Proprio lui che, aveva fatto dello stile di vita libertino una bandiera e un segno di riconoscimento, comprendeva che il risultato finale di tanta “libertà sessuale regalata” sarebbe stato quello di una “vera e propria generale nevrosi”. Nulla di più lungimirante, nulla di più vero.

L’opera ultima di Pasolini e l’atto ultimo della sua vita sono inquietantemente intrecciati: Salò e le 120 giornate di Sodoma (1975), primo capitolo di un’incompiuta “trilogia della morte”, è la scioccante e distopica apoteosi dell’intreccio indissolubile tra potere, perversione sessuale e uomo ridotto ad oggetto: il punto più basso dell’eclissi di Dio. La stessa morte di Pasolini è un mistero beffardo: un mito vivente, assassinato da uno di quei ragazzi di vita che avevano fatto la sua fortuna letteraria. La grandezza di un genio creativo naufragata nella fragilità della carne. Pasolini, però, non si può comprendere se lo si approccia in maniera paternalistica, prescindendo dalle contraddizioni in cui è immerso e, al tempo stesso, tentando di spiegarle. Il pensiero e l’espressività di Pasolini non sono organici, né armoniosi, sono figli del caos del tempo in cui vive. La saggezza di Pasolini è la stessa che promana da certi dannati danteschi che hanno conosciuto la Verità nella perdizione, senza redenzione. Una Verità frantumata eppur riconoscibile, di cui vale la pena raccogliere i pezzi. Un grido di disperazione che non può rimanere inascoltato.