Quand’è che il lavoro nobilita l’uomo?
Già 37 anni fa, il santo pontefice polacco aveva individuato nel “pensiero materialistico ed economicistico”, la matrice comune alle due polarizzate ideologie del liberismo e del socialismo. In tal senso, la Dottrina Sociale della Chiesa rappresenta la vera ‘terza via’, in quanto non considera il lavoro come una “merce sui generis”, né come una “forza” (forza-lavoro) ma come una “dimensione soggettiva”, intrinseca alla dignità dell’uomo (cfr LE 7).
Alternativa sia al capitalismo senza regole, che all’assistenzialismo statalista, è la concezione biblica dell’uomo, unica creatura in grado di “soggiogare e dominare la terra” (Gen 1,28), non ridotto a “strumento di produzione” ma elevato a “soggetto efficiente”, “autore”, “artefice e creatore” del lavoro stesso. È l’uomo e non la merce il “vero scopo di tutto il processo produttivo”. Il lavoro è quindi una “vocazione universale”, oltre che “la condizione per rendere possibile la fondazione di una famiglia, poiché questa esige i mezzi di sussistenza, che in via normale l’uomo acquista mediante il lavoro” (LE 10).
Interessante anche il paragrafo che Wojtyla dedica al già esistente, ma non ancora esplosivo, fenomeno delle migrazioni economiche. Pur trattandosi di un “fenomeno antico” e pur non essendo in discussione il diritto di emigrare per “cercare migliori condizioni di vita in un altro Paese”, l’abbandono della propria terra “costituisce, in genere, una perdita per il Paese dal quale si emigra”, in quanto “viene a mancare in tale caso un soggetto di lavoro, il quale con lo sforzo del proprio pensiero o delle proprie mani potrebbe contribuire all’aumento del bene comune nel proprio Paese”. Un pensiero assai scomodo, quello di Giovanni Paolo II, in tempi in cui, secondo la cultura dominante, lo spostamento da un paese all’altro, è aprioristicamente considerato un bene per l’intera comunità globale. Wojtyla aveva infatti presagito il rischio dello “sfruttamento finanziario e sociale” del migrante, che può rimanere egli stesso “svantaggiato nell’ambito dei diritti riguardanti il lavoro in confronto agli altri lavoratori di quella determinata società” (LE 10).
Indicando il primato dell’uomo sul lavoro (e non viceversa) e la dignità dell’uomo in quanto soggetto e non oggetto di produzione, Wojtyla offre un argine alle attuali degenerazioni dell’etica economica. A tale concetto è strettamente legata la pocanzi citata intuizione sulle migrazioni, le quali, nella visione del papa polacco, sono accettabili solo in una dimensione di ‘emergenza’, in quanto non dovrebbero permettere la disgregazione della comunità di origine, né prestare il fianco allo sfruttamento del lavoro o, peggio, alla tratta di esseri umani. Un ragionamento tutt’altro che in contrasto con l’etica dell’accoglienza incoraggiata da papa Francesco, rispetto alla quale la visione wojtylana è complementare.
Una rilettura delle encicliche menzionate, assieme anche alla Populorum progressio (1967) del beato Paolo VI, alla Caritas in Veritate (2009) di Benedetto XVI e alla Laudato si’ (2015) di Francesco, sarà utile a guadagnare una visione non ideologica e, soprattutto, colma di speranza, di ciò che veramente “nobilita l’uomo”.