Al di qua e al di là dell’Atlantico, non c’è assolutamente da stare tranquilli. Episodi e scene raccapriccianti, come quelli capitati a Minneapolis lo scorso 25 maggio, seguiti da settimane di disordini e tumulti di strada, non sono purtroppo una novità negli USA. Quello che sta succedendo in questi giorni, tuttavia, è di una gravità epocale. Ma andiamo con ordine. Nel tardo pomeriggio del 25 maggio, il 46enne afroamericano George Floyd, da poco disoccupato, con precedenti penali per rapina, acquista vicino casa un pacchetto di sigarette: al momento di uscire viene inseguito dal tabaccaio che si accorge di aver ricevuto una banconota da 20 dollari falsa. Non essendo riuscito a farsi restituire la merce, il negoziante chiama la polizia che giunge nel giro di sette minuti. Floyd oppone resistenza e gli agenti cercano di immobilizzarlo prima all’interno della loro vettura, poi per terra. L’agente Derek Chauvin (già denunciato 18 volte in passato per le sue condotte violente) finisce col distendere Floyd, esercitando la pressione del suo ginocchio contro la gola dell’uomo arrestato. È proprio in questo frangente che un ragazzo, assistendo alla tragica scena, riesce a filmarla col cellulare, cogliendo anche le ultime parole pronunciate con un filo di voce da Floyd: “I can’t breathe”, “non riesco a respirare”.
Va innanzitutto considerato lo sfondo sociale in cui è avvenuto l’increscioso delitto. Gli Stati Uniti sono forse il paese occidentale che più sta uscendo con le ossa rotte dalla crisi del coronavirus; in primo luogo detengono il record dei contagiati in termini assoluti (1,9 milioni ma anche il rapporto contagiati/abitanti, che ammonta allo 0,55%, è uno dei 3-4 più alti a livello mondiale). Gli stati che hanno imposto il lockdown più intransigente sono New York, New Jersey, Massachusetts, Pennsylvania, Michigan, Illinois, California, Connecticut, Louisiana e Maryland, che, però, paradossalmente, sono anche gli stati che hanno registrato più vittime per Covid-19. Decisioni impopolari che hanno avuto come conseguenza circa 40 milioni di disoccupati: un dato scioccante, se si pensa che, appena all’inizio dell’anno, il tasso di disoccupazione negli USA aveva raggiunto i suoi minimi storici (3%). In questo scenario di frustrazione e tensione, il caso Floyd è stato la classica scintilla, da cui è divampato un incendio dalle dimensioni spaventose. Non va trascurato il fatto che, in America, come un po’ in tutto il mondo, sono i più poveri a vivere con maggior disagio gli effetti della quarantena: non solo perché sono quelli che più facilmente perdono il lavoro ma anche per la sofferenza psicologica di dover vivere confinati in abitazioni di piccole dimensioni, in cui spesso allignano il disagio psicologico e la violenza familiare.
Quello che è successo in seguito, è sintomatico della grande confusione che regna oltreoceano. Al malcontento sociale, si affianca l’altissimo tasso di conflittualità politica. I tumulti esplosi nelle principali città americane, persino nelle ore di coprifuoco, da New York a Dallas, da Los Angeles a Chicago, sono andati ben oltre il semplice pretesto della diatriba interrazziale. La questione non è così semplice come la si vuole dipingere. La narrazione liberal portata avanti in questi giorni è la seguente: i neri sono ancora oppressi e ghettizzati e la polizia, al minimo sgarro, infierisce vigliaccamente contro di loro. Le rivolte attuali, quindi, al di là di qualche eccesso dei manifestanti, portano avanti il nobile ideale dell’uguaglianza, in contrapposizione all’America bianca, razzista, suprematista, classista e sessista, incarnata, nella loro visione, dal presidente Donald Trump. Non è un caso che proprio la Casa Bianca sia stata circondata dai manifestanti, nonostante in America, la responsabilità per l’ordine pubblico, la sicurezza e la polizia sia quasi sempre di pertinenza dei singoli stati e delle contee e non del governo nazionale. Inoltre è abbastanza semplicistico identificare la violenza (comunque deprecabilissima) dei poliziotti con il razzismo tout court, nella misura in cui, nelle forze dell’ordine, moltissimi non sono bianchi. E, al contempo, sono bianche molte delle vittime della stessa violenza poliziesca.
Una realtà su cui la stampa mainstream tace è che in stati come il Minnesota (dove è si è consumata la tragica morte di George Floyd e dove il governatore e la maggioranza al parlamento statale sono democratici, così come il sindaco e il consiglio comunale di Minneapolis), è stato imposto uno dei più severi lockdown di tutti gli Stati Uniti: due mesi di quarantena dura, attenuata soltanto nei giorni immediatamente precedenti l’omicidio Floyd. Una politica fortemente restrittiva delle libertà personali, in contrapposizione con la “linea morbida” auspicata da Trump e messa in pratica nella maggior parte degli stati a guida repubblicana. Dopo il delitto Floyd e a seguito delle proteste, è scattato una sorta di cortocircuito: in Minnesota e in altri stati la polizia si è dimostrata incredibilmente tollerante con le manifestazioni di protesta (a forte rischio assembramento) e persino con gli atti vandalici messi in atto dall’ala più facinorosa dei Black Lives Matters e di altri gruppi estremisti. In numerose città in ogni parte degli USA, accanto alle manifestazioni pacifiche, centinaia di giovani – neri ma non solo – hanno preso d’assalto automobili, negozi e bar, gestiti non solo dagli “odiati” e ricchi bianchi ma spesso anche da neri, ispanici o altre minoranze etniche. Almeno tre persone hanno perso la vita negli scontri e ben diecimila persone sono finite in manette per aggressioni e atti vandalici. Persino molte chiese sono state danneggiate.
È evidente che questi gruppi facinorosi danneggiano fortemente l’immagine delle battaglie per i diritti civili. A denunciarlo, tra gli altri, è stata Alveda King, nipote del Premio Nobel per la Pace, Martin Luther King (1929-1968). “Dobbiamo fermare la violenza”, ha detto la donna intervistata da Fox News. “Se mio zio fosse ancora qui, sarebbe rimasto a casa a pregare”, ha aggiunto, con riferimento al fatto che molte manifestazioni, anche pacifiche, hanno in tutto o in parte, infranto le regole del lockdown. Intanto il presidente Trump, accusato – a torto o a ragione – di strizzare l’occhio all’estrema destra razzista, erede del Ku Klux Klan, cerca di gettare acqua sul fuoco: dopo aver accusato la polizia di Minneapolis di scarsa professionalità, Trump sta studiando la possibilità di classificare tra i gruppi terroristi gli Antifa che hanno messo a ferro e fuoco molte città americane. Per contro, molte amministrazioni statali e comunali a guida democratica, per ragioni di opportunità politica, hanno rifiutato la disponibilità della Casa Bianca a inviare agenti della Guardia Nazionale nei luoghi della sommossa. Le elezioni presidenziali del prossimo 3 novembre, in cui il presidente uscente sfiderà l’ex vicepresidente Joe Biden, sono sempre più vicine e il clima politico si va surriscaldando. Tanto i repubblicani quanto i democratici si presentano, a modo proprio, nel ruolo di pacificatori del Paese: i primi puntano a restaurare legge e ordine e ad estirpare la delinquenza comune; i secondi puntando più sulle questioni di principio, insistendo sui diritti delle minoranze calpestate e sul loro riscatto dai soprusi del passato.
Anche la Chiesa Cattolica si è pronunciata sulla difficile situazione americana. Durante l’udienza generale di mercoledì scorso, papa Francesco ha invitato a “non […] tollerare né chiudere gli occhi su qualsiasi tipo di razzismo o di esclusione e pretendere di difendere la sacralità di ogni vita umana”, condannando, al tempo stesso, la rappresaglia violenta “autodistruttiva e autolesionista”. Sulla stessa lunghezza d’onda la Conferenza Episcopale Statunitense che ha ricordato: “Il razzismo non è una cosa che appartiene al passato o semplicemente una questione politica usa e getta da bandire quando è più conveniente. È un pericolo reale e presente che deve essere affrontato frontalmente”.
Le divisioni, il razzismo, la delinquenza, il disagio giovanile, il fanatismo politico sono in realtà i frutti amari di una società estremamente frammentata, secolarizzata e individualista in cui Dio è assente oppure se ne fa un uso strumentale, a servizio degli interessi personali o delle ideologie del momento. Una religione disincarnata, per cui l’altro non è mai visto a immagine e somiglianza di Dio ma sempre come un potenziale avversario. Anche quando si fanno strada parole di solidarietà o giustizia, quasi sempre vengono pronunciate a difesa delle prerogative di un gruppo sociale, nonché in contrapposizione con qualche altro gruppo. Mai nel segno di una vera pace sociale. Abbiamo molte ragioni di preoccuparci per quanto sta succedendo in America: anche la vecchia Europa, sempre più multiculturale, piena di disuguaglianze e disarmonie, corre gli stessi rischi.
Io ho letto un altro articolo che diceva che la banconota di 20 dollari si supponeva che fosse falsa e che lui non ha assolutamente opposto resistenza. Poi ne ho lette di tutti i colori, che era ubriaco, drogato, violento, assassino, delinquente e chi più ne ha più ne metta. Ho letto anche che era un cristiano evangelico attivo nella chiesa che frequentava.