Santa Edvige e gli altri: tutti gli “amici in Cielo” di Karol
Totus tuus: è la scritta, ben visibile a ogni pellegrino che passa per San Pietro, incisa alla fine del colonnato della basilica vaticana. Un mosaico della Vergine col Bambino e sotto il motto e lo stemma del primo pontefice polacco della storia, che benedisse l’immagine mariana l’8 dicembre 1981. San Giovanni Paolo II aveva sempre riconosciuto l’intercessione benefica di Maria nei momenti più difficili della sua vita, in particolare dopo l’attentato, il 13 maggio dello stesso anno. L’espressione Totus tuus l’aveva ripresa da San Luigi Grignion de Monfort (1673-1716): il predicatore e teologo francese è davvero il primo grande ispiratore della spiritualità e del pontificato wojtylani.
“La dottrina di questo Santo ha esercitato un influsso profondo sulla devozione mariana di molti fedeli e sulla mia propria vita. Si tratta di una dottrina vissuta, di notevole profondità ascetica e mistica, espressa con uno stile vivo e ardente, che utilizza spesso immagini e simboli”, scrisse Giovanni Paolo II nel 2003 in una lettera ai religiosi e religiose delle famiglie montfortane, riconoscendo anche quanto il santo francese, per le sue intuizioni ecclesiologiche, fosse stato uno dei precursori del Concilio Vaticano II, con due secoli e mezzo d’anticipo.
Gli altri “amici in cielo” del grande pontefice polacco sono per lo più suoi connazionali. Nell’assunzione dell’incarico episcopale a Cracovia, Wojtyla tenne sempre a mente l’esempio del suo più illustre predecessore: il martire Santo Stanislao (1030-1079). “Egli tracciò quel nome sul pavimento / quando uscirono rivoli di sangue. / Voglio descrivere la mia Chiesa nel nome per cui il popolo / ricevette un secondo battesimo, / un battesimo di sangue”, scrive il Papa nella sua poesia Stanislao, in cui ricorda il martirio del santo vescovo di Cracovia. “Se la Parola non ha convertito, sarà il Sangue a convertire”, si legge ancora negli stessi versi.
Quella del martirio è una dimensione sempre presente o latente nella vita di Karol Wojtyla, per un trentennio spiato dai servizi segreti della Polonia comunista.
Il suo fu il “martirio bianco” di chi vede la morte onnipresente intorno a sé, di chi ha visto perire tanti fratelli nel nome della fede. Un nome su tutti: il beato Jerzy Popieluzsko (1947-1984), sacerdote dell’Arcidiocesi di Varsavia, assassinato dal regime nel 1984. Sulla sua tomba, tre anni dopo il Papa si fermò in preghiera e proclamò: “Il suo sangue ha salvato l’Europa”.
La Polonia è la terra che, più di tutte, ha patito, a poca distanza di tempo, il martirio del suo popolo da parte di due dittature di colore diverso, uscendo da entrambe a testa altissima.
È proprio Giovanni Paolo II a canonizzare nel 1982 San Massimiliano Kolbe (1884-1941), il frate che, nell’orrore di Auschwitz, si fece fucilare al posto di un padre di famiglia, dando così letterale ed encomiabile compimento all’undicesimo comandamento: “Nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita per gli amici” (Gv 15,13). È proprio con questa frase del vangelo giovanneo, che Wojtyla introdusse l’omelia per la canonizzazione del suo connazionale francescano, sottolineando poi che “l’ispirazione di tutta la sua vita fu l’Immacolata, alla quale affidava il suo amore per Cristo e il suo desiderio di martirio”.
La devozione mariana e la vocazione al martirio sono dunque tra gli elementi più ricorrenti nella spiritualità di molti santi polacchi.
Chi però, più di tutti, ha vegliato dal cielo sul pontificato wojtylano è stata Santa Edvige di Trzebnica (1174-1241), regina e patrona della Polonia. A riconoscerlo fu lo stesso Giovanni Paolo II, quando, nel 1979, durante la sua prima visita pastorale nel suo paese d’origine, offrì una candela votiva al santuario di Trzebnica, ricordando come la Provvidenza Divina, “nei suoi imperscrutabili disegni”, avesse scelto il 16 ottobre 1978, memoria di Santa Edvige, come giorno della sua elezione al soglio di Pietro, diventando così patrona del suo pontificato. Edvige passa alla storia come la regina che, dopo la morte del marito, Enrico il Barbuto, spogliandosi della corona e di tutti i suoi beni, divenne monaca cistercense, dedicando il resto della sua vita, ai poveri, ai carcerati, ai lebbrosi e a tutti gli ultimi della terra.