Arriva l’ennesima legge ingiusta: e la Chiesa che dice?

Eutanasia
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Siamo alle solite. Mentre lo Stato dà il nulla osta all’ennesima deriva antropologica, dalle alte sfere ecclesiastiche arrivano messaggi fin troppo accomodanti. Stiamo parlando di due vicende non collegate tra loro ma assolutamente paradigmatiche di una dinamica che, ormai da troppi anni, non conosce inversioni di tendenza. Pare quasi un gioco delle parti: più il mondo laico “alza la posta”, più gli ecclesiastici, invece di smascherare la slealtà dei loro interlocutori, avanzano la linea di una mediazione ad oltranza, che ormai ha tutto il sapore di una capitolazione.

Andiamo con ordine: risale alla fine della settimana scorsa, il Dpcm che inserisce la procreazione medicalmente assistita nei Livelli Essenziali di Assistenza (Lea), ovvero in quelle prestazioni sanitarie di cui lo Stato si fa carico, concedendo così l’esenzione dal ticket. Come spesso accade, l’intento è buono; non altrettanto si può dire per la natura intrinseca delle azioni che vengono avallate (meno che mai per le loro conseguenze). Si continua, cioè, a dare una risposta sbagliata a un tema serio e degno d’ascolto come quello dell’infertilità di molte coppie. A fronte di soluzioni lecite e consigliabili come (sul piano giuridico) l’adozione e (sul piano medico-scientifico) il ricorso alle naprotecnologie e ad altre cure per la fertilità, ci si ostina a proporre un metodo che, alla prova dei fatti, si è rivelato poco efficace e, in certi casi, nocivo per la salute della donna e dei nascituri. L’altra prestazione che viene inserita nei Lea da parte del governo è la pillola anticoncezionale, un farmaco i cui effetti collaterali sono così vistosi da renderne sconsigliabile l’utilizzo, a prescindere dal giudizio morale che si possa avere sulla contraccezione.

A fronte di questa ostinazione ideologica che continua a ignorare l’amara realtà dei fatti, procedendo come un rullo compressore contro le leggi di natura, vanno riscontrate – su un tema differente ma sempre pertinente alla sfera bioetica – le recenti affermazioni di monsignor Vincenzo Paglia sul fine vita. “Personalmente non praticherei l’assistenza al suicidio, ma comprendo che una mediazione giuridica possa costituire il maggior bene comune concretamente possibile nelle condizioni in cui ci troviamo”, ha detto monsignor Paglia, durante il suo intervento al Festival del Giornalismo di Perugia. Affermazioni pesantissime, perché pronunciate non da un vescovo qualsiasi ma dal presidente della Pontificia Accademia per la Vita, organo depositario della dottrina bioetica della Chiesa Cattolica, oltretutto non in un’intervista a braccio ma in un discorso ufficiale. È vero che, in seguito, il presule ha ribadito la sua contrarietà al suicidio assistito ma è altrettanto vero che, non rinnegando la necessità dell’approvazione di una legge, lo stesso Paglia apre – nella migliore delle ipotesi – a una riforma compromissoria che, invece, mantenendo lo status quo, sarebbe sicuramente evitata.

Monsignor Paglia non è nuovo a dichiarazioni “cerchiobottiste” su questioni che, durante il pontificato di Benedetto XVI non avremmo esitato a definire “non negoziabili”. Poco tempo prima, anche il cardinale Matteo Maria Zuppi, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, parlando di aborto, aveva definito la Legge 194 una normativa “dolorosa” che però non andrebbe più “messa in discussione”.

Le posizioni di Paglia e Zuppi partono da un presupposto che, storicamente, non ha mai fatto parte del magistero della Chiesa: quello secondo il quale per nessun tema sembrerebbero ammessi vuoti giuridici. Tutto va codificato, anche a costo di negoziare con legislatori che, proprio sui temi della vita o della famiglia, hanno posizioni diametralmente opposte a quelle cattoliche. Posto che, in uno Stato laico, la Chiesa non fa le leggi, in quello stesso Stato laico, dove circolano liberamente le idee, la Chiesa è legittimata ad esprimere una posizione libera anche su temi laici e secolari, tanto più quando questi temi vanno a toccare i fondamenti sull’uomo. Anche per questa ragione, gli uomini di Chiesa hanno il diritto/dovere di manifestare un giudizio sulla liceità o iniquità delle leggi, per orientare le coscienze, pur non disponendo di strumenti concreti e diretti per impedire l’approvazione di norme ingiuste.

È di tutta evidenza, dunque, che le posizioni dei presidenti della Pontificia Accademia per la Vita e della Cei, non sono espressioni di un’autonomia della Chiesa rispetto alle istituzioni secolari ma, piuttosto, di un clero in posizione gerarchicamente subordinata allo Stato e ad esso sostanzialmente allineato. Una dinamica del genere non ha precedenti nella storia, se non – a livello locale – in quelle chiese e diocesi che hanno avuto a che vedere con regimi dittatoriali e sono state costrette ad un drammatico bivio: l’asservimento o, al contrario, la persecuzione. Delle due l’una, dunque: o viviamo già, senza essercene accorti, in una dittatura de facto, oppure determinati uomini di Chiesa hanno scelto liberamente e scientemente di consegnarsi a forze ostili e perniciose.