La vita non si possiede, si vive. Entrare nella vita, comunque, non è una necessità ma una libera scelta. Con queste impegnative considerazioni, si apre il Messaggio per la 42° Giornata Nazionale per la Vita (domenica 2 febbraio 2020), a cura del Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale Italiana, sul tema Aprite le porte alla vita. Quest’anno, i vescovi hanno preso spunto dall’episodio evangelico del giovane ricco (cfr Mt 19,16-22; Mc 10-17-22; Lc 10,25-37), mettendo in luce la differenza di approccio tra quest’ultimo e Gesù. Il primo domanda: “Che cosa devo fare di buono per avere la vita eterna?” ma il secondo gli risponde: “Se vuoi entrare nella vita osserva i comandamenti”. La differenza è sottile e, al tempo stesso, abissale. “La vita non è un oggetto da possedere o un manufatto da produrre, è piuttosto una promessa di bene, a cui possiamo partecipare, decidendo di aprirle le porte”, scrivono i presuli. Non c’è nulla di astratto in queste parole, tutt’altro. Dal modo in cui trattiamo la nostra vita, deriveranno tutte le conseguenze possibili per noi e per gli altri.
Se rimaniamo autocentrati e ci illudiamo di poter controllare totalmente la nostra vita, diventeremo sempre più esigenti con noi stessi ed orgogliosi al punto di non accettare aiuto, limitando fortemente le nostre relazioni umane. Non proveremmo stupore riguardo al fatto che “non siamo l’origine di noi stessi” e che quell’origine risiede sempre nell’apertura alla vita, in questo caso alla nostra vita. Se si perde questa consapevolezza, diventando autoreferenziali, sarà quasi inevitabile iniziare ad odiare noi stessi e gli altri. E a maltrattare la vita in tutte le forme possibili: “aborto”, “abbandono”, “maltrattamento”, “abuso”. Se, al contrario, “diventiamo consapevoli e riconoscenti della porta che ci è stata aperta, e di cui la nostra carne, con le sue relazioni e incontri, è testimonianza, potremo aprire la porta agli altri viventi” e impegnarci a “custodire e proteggere la vita umana dall’inizio fino al suo naturale termine e di combattere ogni forma di violazione della dignità, anche quando è in gioco la tecnologia o l’economia”, scrivono i vescovi.
È qui il vero nocciolo del Messaggio per la 42° Giornata per la Vita: “Siamo stati ospitati per imparare ad ospitare” e, di conseguenza, siamo chiamati ad accogliere ogni forma di fragilità. L’aborto, l’eutanasia, la fecondazione artificiale o la manipolazione genetica nascono tutti da un’unica radice: la paura della sofferenza. Questa paura viene ipocritamente riferita da taluni alla sofferenza dell’altro, quando, in realtà, al centro di tutto c’è soltanto la propria sofferenza. Le persone che rifiutano di mettere al mondo figli perché “un mondo crudele li attenderebbe”, stanno in realtà fuggendo dalla sofferenza e dalla fatica che procurerebbe loro allevare ed educare dei figli in un mondo ostile. Rifiutiamo la vita dell’altro anche quando essa va a “sconvolgerci i piani”: ecco allora i bambini abortiti da madri che a loro preferiscono la carriera (si pensi alle emblematiche dichiarazioni dell’attrice Michelle Williams…). Rifiutiamo la vita dei nostri genitori o dei nostri nonni quando, in tempo o in denaro, ci costerebbe troppo curare la loro infermità. Ma il rifiuto della vita è anche nel malcelato disprezzo per i poveri che bussano alla nostra porta, come Lazzaro alla mensa del ricco (Lc 16,19-31), è nel terrorismo, nelle guerre, nella droga, che porta i suoi consumatori a isolarsi dal mondo e a vivere un lento suicidio.
Il rifiuto della vita è, in definitiva, il rifiuto della relazione con l’altro che fa sprofondare nella solitudine e inaridire, fino al disprezzo della propria stessa vita. Per contro, osservano i vescovi nel Messaggio, “non è possibile vivere se non riconoscendoci affidati gli uni agli altri”. È impossibile amare la vita e, in particolare, la vita fragile, se ognuno di noi non riconosce la propria imperfezione che, per ciò stesso, ci rende bisognosi dell’altro. Ammettere di non essere autosufficienti è il primo passo per questa apertura. Quando poi si accorge che l’amore umano da solo non basta a saziare il proprio desiderio d’infinito, ecco che l’uomo si apre a Dio. E tutto diventa esponenzialmente amore. E vita.