Asia: terra di missione per la Chiesa di Francesco

Asia: terra di missione per la Chiesa di Francesco

Un discorso a parte merita la Cina, dove l’ostilità anticristiana è di stampo laicista, retaggio del totalitarismo maoista, e si inserisce in uno scenario di intolleranza verso tutte le religioni (si pensi all’etnia degli Uiguri musulmani e perseguitati come i Rohingya in Myanmar). Nella transizione dal comunismo al turbocapitalismo, consolidatasi da almeno un trentennio, vi è un elemento di continuità rappresentato dall’ideologia antireligiosa e, in particolare, anticristiana. In un paese dove l’unico dio tollerato è quello del denaro e della produzione, il cristianesimo è visto dal potere come fumo negli occhi, in quanto continua a proteggere la dignità dell’uomo a tutti i livelli: dalla tutela dei lavoratori alla difesa della vita e della famiglia.

Sempre in Cina, la divisione tra la Chiesa “clandestina”, in comunione con Roma, e quella “patriottica”, compromessa con il regime, è uno degli oggetti di maggiore attenzione da parte della diplomazia vaticana, il cui obiettivo a lungo termine è la riconciliazione tra le due realtà. Il dialogo che papa Francesco sta avviando con la chiesa patriottica è stato frainteso da alcuni settori della chiesa clandestina che hanno interpretato tali mosse come un segno di arrendevolezza della Santa Sede nei confronti di Pechino. Si tratta in realtà di una nuova ostpolitik da parte della diplomazia vaticana, per molti versi simile alla strategia della distensione, lanciata nei primi anni ’60 da San Giovanni XXIII nei confronti dell’Unione Sovietica e proseguita nel decennio successivo dal cardinale segretario di Stato, Agostino Casaroli.

Un ‘disgelo’ con Pechino sarebbe di un’importanza incalcolabile per la Chiesa, in considerazione dell’inarrestabile ascesa della Cina come seconda potenza economica mondiale – ad un passo dal primato assoluto – e dell’enorme vastità ed influenza di quello che si conferma il paese più popoloso del mondo. Se la terra del “dragone” si convertisse alla libertà religiosa e alla tutela dei diritti umani, saremmo di fronte ad svolta epocale nella storia dell’umanità intera.

Riallacciandoci al viaggio pontificio che sta per concludersi, è evidente che, in piccola scala, Francesco sta affrontando le problematiche generali del continente asiatico, continuando a proporsi come uomo di pace e mediatore nei grandi o piccoli conflitti.

In un Myanmar finalmente democratico ma non ancora depurato dalle scorie di cinquant’anni di dittatura, il Papa ha teso la mano ai monaci buddisti e al Premio Nobel per la Pace, Aung San Suu Kyi, attuale ministro degli Esteri.
Spostatosi poi in Bangladesh, il Santo Padre, memore dell’attentato terroristico del luglio 2016, di cui rimasero vittime anche degli italiani, ad una popolazione in larghissima parte musulmana, ha ribadito la condanna della strumentalizzazione violenta di qualunque fede religiosa.

Al tempo stesso, a sorpresa, ha espresso la sua richiesta di perdono ai Rohingya, cui il governo birmano è ostile: una controversia in cui i cristiani non sono minimamente coinvolti. E ha riportato in primo piano il ruolo della Chiesa come portatrice di pace non solo nell’ambito delle comunità cristiane, o tra cristiani e resto del mondo, ma a beneficio di tutti gli uomini di buona volontà.

Rimarrà da vedere se, in un futuro immediato, i leader politici e religiosi del continente più grande e in maggiore espansione, ascolteranno il Vescovo di Roma oppure lo ostacoleranno. [Luca Marcolivio]