Barletta ricorda don Gino Spadaro nel 10° anniversario della sua morte.

Barletta ricorda don Gino Spadaro nel 10° anniversario della sua morte.Ricorrendo il decimo anniversario di Don Gino Spadaro, sacerdote barlettano, questa sera alle ore 20,00, nella Parrocchia Santr’Andrea Apostolo, in cui Don Gino è stato parroco, sarà celebrata la Santa Messa alle ore 20,00 presieduta dal Vicario Episcopale Mosns. Filippo Salvo.

Al fine di far conoscere meglio la figura di questo sacerdote, si riporta il testamento spirituale.

TESTAMENTO SPIRITUALE DI DON LUIGI SPADARO

DECEDUTO A BARLETTA L’11 AGOSTO 2006

Il testo integrale del testamento spirituale di Don Luigi Spadaro, letto da S. E. Mons. Michele Seccia, Vescovo di Teramo-Atri, a conclusione della solenne liturgia esequiale per il sacerdote scomparso l’11 agosto 2006

In Barletta, iniziato il 12 dicembre 2001.

Alla presenza della Santissima Trinità, assistito dalla Beata Vergine Maria, Madre di tutte le grazie e mia avvocata, e dai miei Santi Patroni Luigi Gonzaga, Benedetto abate, Andrea apostolo, Francesco da Paola, nel pieno possesso delle mie facoltà fisiche, mentali e di spirito, io, sacerdote Luigi Cosimo Damiano Spadaro, raccolgo qui le mie volontà testamentarie consegnandole al rispetto di chi sopravviverà a me.

Nella consapevolezza di essere venuto al mondo senza nulla e con la sola promessa della misericordia divina, a quella mi affido, col desiderio di andarmene senza nulla, solo appagato d’aver vissuto, di essere stato cristiano, di aver servito Gesù e la Chiesa nel Sacerdozio Cattolico: tutto è stata bontà di Dio, a Lui canto la mia lode e il mio ringraziamento, da Lui aspetto che mi usi tutto il suo perdono, quel perdono che spesso ho provocato con tutto il carico della mia miseria. E il carico fu grande!

Ho creduto, ho sperato, ho amato: Dio sa quanto e come, a Lui raccontando di quando la liberalità del suo cuore ho sentito peso insopportabile o giogo soave, e a Lui sempre ripetendo con Pietro: Signore, tu sai tutto: tu sai che ti amo.

Turbato dalla memoria del male che posso aver fatto agli altri consapevolmente o inconsapevolmente, a tutti chiedo perdono: per mio conto ho già perdonato a chi può avermi fatto del male. Chiedo a tutti di non voler ricordare le mie malizie, che danno

la misura amplissima della mia natura di uomo e peccatore: ho cercato di fare così con le miserie degli altri, come me uomini e peccatori.

Me ne vado senza rimpianti terreni: il male l’ho fatto tutto, il bene sono riuscito talvolta a salutarlo dall’ altro marciapiede; nessun rimpianto e solo una nostalgia, quella del Cielo, e con la morte avrò esaurito anche quest’ultima.

Debiti di natura economica mi sono sforzato di non lasciarne e, ove mai ve ne fossero, penserà ad assolverli chi ne ha avuto incarico; debiti di natura morale ne  lascio invece tanti: tutti voi, miei creditori, arrangiatevi ormai con una buona dose di perdono.

Il Sacerdozio: l’ho amato più di mia madre, eppur l’ho offeso, proprio come amai mia madre, eppur la offesi. Il Signore Gesù, mio amore più grande e più vero, amore non turbato dal velo della carne e delle passioni, amore che con me fallì e tuttavia rimase imperturbato e insondabile, usi con me misura doppia del suo amore e mi ammetta a partecipare alla liturgia celeste: Gli chiedo almeno l’ultimo posto all’altare del cielo.

Ai miei Vescovi: vi ho amati fiIialmente, anche quando non vi ho stimati o non vi

ho obbedito.

Ai miei confratelli sacerdoti: vi ho sentiti fratelli, tutti, anche quando vi ho offesi.

Alla mia Parrocchia Sant’Andrea: ti ho dato gli anni più pieni della mia vita, anche quando ti rinfacciavo d’ avermi deluso, eppure non avrei saputo fare a meno di te.

Ai giovani della Parrocchia: nel migrare della vostra vita, non ricordatemi con venerazione, perché non l ‘ho meritata, ma ricordatemi come amico di gioie vissute insieme e di errori commessi insieme: ne rideremo insieme, voi ancora di là, nel tempo, io di qua dal tempo.

Alla mia famiglia: mio orgoglio più sano, mia radice profonda, balbettio della mia

fede, evidenza di amore che si dona, culla della mia vocazione, siate contenti che io

vi consegni al Cuore di Cristo al quale racconterò che a me avete dato senza nulla chiedermi, e che solo vostro compenso fu e sarà ancora l’ avermi avuto per fratello e zio ‘sacerdote’.

Ai miei amici: l’apostolo Giovanni annotò con una punta di affettuoso orgoglio che aveva poggiato il capo sul petto del Signore. Anche voi, miei amici, l’avete fatto con me e io con voi, e come voi amaste di sentire i miei palpiti, io amai di sentire i vostri. Furono palpiti umanissimi, i nostri, tremendamente umani, stupendamente umani: belli anche quando preludevano al tradimento con già trenta denari in tasca, belli anche quando coprivano la menzogna senza riuscire a non arrossire, belli quando promettevano la luna sapendo di non poterla dare, belli quando più che palpiti furono singhiozzi, belli quando finalmente crebbero e furono cuori di adulti. Per voi ho potuto far poco: il resto lo faccia il Signore, amico di dodici cuori che tradirono, mentirono, promisero, piansero, crebbero, amarono.

A tutti, a quelli ancor vicini nei giorni miei ultimi, a quelli i cui nomi non riesco a ricordare perché il ferro della mia memoria è arrugginito: con voi ho gustato tutta la gamma cromatica e sonora dei sentimenti, dal colore luminoso dell’ amore al suono cupo del risentimento. Ora che per me è passato tutto e per le maglie sbrindellate della pelle se ne va anche l’ultimo fiato della mia superbia, almeno voi non siate sciocchi nel rimproverarmi come sarei potuto essere e cosa avrei potuto fare. V i sembra che io possa ora imparare qualcosa?

A don Vito: ti ringrazio per tutte le volte che mi hai riconciliato col Padre, assolvendomi più nelle mie tormentate reticenze che nell’ accusa delle mie colpe. il tuo cuore, amico nell’ascoltarmi, umano nel comprendermi, fraterno nel parlarmi, sacerdotale nel perdonarmi, conservalo tutto per Gesù: anche quando sanguinasse del pianto di peccatore, cauterizzalo con la speranza di eternità.

Ovunque mi capiti di morire, chiedo di essere sepolto nel riposo dei sacerdoti di Barletta: con loro cantai la liturgia terrena, con loro vorrò aspettare il ritorno di Cristo, per celebrare con loro la liturgia celeste. Dispongo (se il momento del mio trapasso avverrà in condizioni ordinate e comuni) che il clero della mia città, in unione con l’Arcivescovo, curi le esequie nella chiesa Cattedrale o nella chiesa parrocchiale, l’inumazione nella terra, l’ esumazione dopo gli anni prescritti per legge, la definitiva collocazione dei resti nel colombario della cappella capitolare: a nessuno sia dato di fare diversamente, né alla mia famiglia di origine alla quale non appartenni più col Sacerdozio, né alla parrocchia di turno cui legai il mio servizio solo da vivo e alla quale non appartengo più ora che sono morto. Ad ogni spesa occorrente provvederà chi ne ha avuto incarico. Mi si avvolga nudo in un sudario, coperto anche il capo, e stretto in bende, perché nel giorno della risurrezione si ritrovino le bende a giacere e il sudario ripiegato. Mi si rivesta di stola e casula della celebrazione eucaristica; prima della sepoltura si ritiri la casula e mi si lasci solo la stola sacerdotale. Si evitino panegirici che non avrò meritato e che non si portano davanti a Dio, e si rammenti piuttosto a tutti che Cristo è risorto e che chi muore in Lui, con Lui risorge. Cantatemi l’Alleluia più bello, i canti più gioiosi, l’Ave maris stella dei barlettani a Maria. Aspergetemi tutti, voi confratelli: saranno quelle le acque che si rompono per la rinascita. Si eviterà, anche in seguito, ogni tentativo di intitolazioni, commemorazioni o dediche: per questa terra io sono passato, non ho messo casa! Piuttosto, pensate tutti a pregare per me, che è la cosa più seria e più necessaria, la sola che vi farete obbligo di darmi senza misura.

Consegno le mie volontà ultime a don Angelo, il più caro fra i miei cari confratelli: a te, lezione di prudente saggezza e saggia prudenza, consigliere paziente e angelo di pace per ognuno, cuore sacerdotale che sapevi custodire gelosamente tutti noi sacerdoti, con l’esecuzione puntuale delle mie volontà a te affido anche di leggere con don Vito fra le mie carte.  A voi eliminare o conservare. Vi curerete poi di ordinare i miei scritti, valutando, se ne sarà il caso, di dame copia così ordinata ecorretta ai miei amici.

 

Ora a noi, Padre che mi hai creato, Figlio che mi hai redento, Spirito che mi vivificavi coi tuoi doni: la vostra creatura ribelle, la vostra pecora che amò di smarrirsi, il festeggiato che non ebbe cura di scartare i vostri doni, ora è davanti a Voi: ora che ho più urgenza dei testi e delle melodie un tempo imparate, lasciate che almeno una volta ancora io canti alla vostra misericordia “Kirie eleison “, alla vostra pietà Domine, non sum dignus”, al vostro giudizio “Fiat voluntas  tua”. Poi l’inizio del solo, unico, immenso palpito della beatitudine che non ha fine; oppure… Ma tu, Madre della misericordia, la sola donna cantata dalla mia vita, frapponiti tra me e il giusto Giudice: ricordaTi che questo tizzone di inferno fu frammento di regalità, spezzone di nobiltà, scheggia di sacerdozio.  A Te s’affida il più spasimante dei tuoi cantori, in Te si rifugia il più prodigo dei tuoi figli, da Te aspetta alla tua porta il più bisognoso dei mendicanti. Con Te l’eternità, con Te il cielo. Amen.

 

(concluso il 16 dicembre 2001, XIX di parrocato)

 

sac. Luigi Spadaro