Diritti dell’uomo: dopo 70 anni, ancora tanta strada da fare

Mancano due giorni a uno degli anniversari più importanti dell’anno: il settantennale della #DichiarazioneUniversale dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino (New York, 10 dicembre 1948). La più rilevante carta internazionale mai siglata durante lo scorso secolo continua però ad essere disattesa e calpestata non solo nei paesi in tutto o in parte estranei alla cultura dei diritti dell’uomo ma anche per mano dei paesi che i diritti dell’uomo li hanno promossi e sostenuti.

Andiamo però a monte della questione. La Dichiarazione Universale fu vergata all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, l’evento storico in cui, nel giro di meno anni (1 settembre 1939 – 8 agosto 1945), la dignità umana è stata più palesemente violata e in cui la pace ha conosciuto la sua sconfitta più tragica. Le nazioni riconciliate cercarono così di costruire un nuovo edificio di concordia e di cooperazione tra i popoli, tre le persone e tra i soggetti sociali, dalle fondamenta ben salde, in grado di resistere agli scossoni più violenti.

Il pregio della Dichiarazione Universale era stato quello di aver saputo sintetizzare il meglio delle culture religiose (in special modo quella giudaico-cristiana) e laiche (in special modo quella illuminista) dell’epoca. Non un compromesso al ribasso ma una sintesi mirabile che andava a toccare tutti gli ambiti della vita umana: la famiglia, la salute, la pace, il lavoro, la libertà di culto e di espressione del pensiero.

Oggi, tuttavia, molti dei principi della Dichiarazione Universale sono minacciati, nonostante il tema dei diritti dell’uomo sia costantemente al centro dei dibattiti a livello mondiale. Nell’accezione comune, si tendono a identificare le violazioni dei diritti umani con quanto avviene lontano dall’Occidente, in particolare in Africa e Asia, in certi casi anche in America Latina. Ciò è sicuramente veritiero ma sarebbe un grave errore pensare che l’Europa o il Nord America possano trovarsi con la coscienza completamente a posto, in fatto di diritti umani.

In primo luogo, c’è un malinteso concetto di uguaglianza. La Dichiarazione parla di esseri umani reciprocamente “eguali in dignità e diritti” (art. 1), “davanti alla legge” (art. 7), nel matrimonio (art. 16), nei “pubblici impieghi del proprio paese” (art. 21), nella retribuzione (art. 23) e nell’accesso all’istruzione (art. 26). Ciò ha dato vita a numerosi malintesi. Sul lavoro, ad esempio, fatta salva la dignità della persona e il suo non sfruttamento, sarebbe iniquo attribuire lo stesso reddito a un dipendente che lavora quattro ore, rispetto a uno che ne lavora in doppio.

Il fraintendimento più macroscopico riguarda però il principio di uguaglianza nell’ambito familiare: le differenze psico-biologiche tra marito e moglie, pur non intaccando l’uguale dignità, non possono generare un’uguaglianza assoluta. È quindi inevitabile che, essendo più incline a dedicare tempo ai figli, la donna avrà meno tempo per il lavoro. Anche quello delle quote rosa è un equivoco creato ad arte: per quanto la partecipazione delle donne in politica vada tutt’altro che scoraggiata, sia l’attivismo politico che le cariche pubbliche sono attività per loro natura maschili, così come sono per lo più femminili le professioni legate all’infanzia, all’educazione, alla sanità o alla moda.

Contiguo alle pari opportunità uomo-donna, è il discorso sugli orientamenti sessuali ‘alternativi’. Contrariamente alle rivendicazioni della lobby gay, non può configurarsi come violazione di diritti umani degli omosessuali, affermare che la famiglia è fondata sul matrimonio tra uomo e donna e che i bambini non solo nascono esclusivamente da un padre e da una madre, ma che hanno bisogno di un genitore maschile e di un genitore femminile ai fini di un’equilibrata maturazione personale. Da notare che persino la Dichiarazione Universale proclama: “Uomini e donne in età adatta hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia, senza alcuna limitazione di razza, cittadinanza o religione”. “Uomini e donne”, dunque, non “uomini e uomini” o “donne e donne”. Inoltre, tra le limitazioni da contrastare, non figura affatto la categoria “sesso”. Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo obsoleta, discriminatoria e omofoba?

Di fronte allo slittamento semantico della categoria dei diritti umani, la Chiesa Cattolica si è sempre confermata maestra di buon senso ed equilibrio. Molto prima delle rivoluzioni americana e francese, il Decalogo mosaico e il Vangelo hanno indicato la corretta road map per i diritti umani, con cui i pontefici hanno messo a fuoco il tempo in cui vivevano, senza comunque mai tradire la dottrina sociale cristiana e il depositum fidei. Il 4 ottobre 1965, nel primo discorso mai pronunciato da un papa alle Nazioni Unite, San Paolo VI condannò con fermezza la corsa agli armamenti, aggiungendo, però, che “non si può amare con armi offensive in pugno” e che, “finché l’uomo rimane l’essere debole e volubile e anche cattivo, quale spesso si dimostra, le armi della difesa saranno necessarie”. Non ci sarà mai pace, dunque, se non nasce nel cuore dell’uomo. Fu sempre papa Montini, nel medesimo discorso, a ricordare che “la vita dell’uomo è sacra”, condannando il “controllo delle nascite”, misura giudicata “irrazionale”, quasi un alibi per non perseguire l’obiettivo più nobile: “Far abbondare quanto basti il pane per la mensa dell’umanità”.

Unico papa a visitare due volte le Nazioni Unite fu San Giovanni Paolo II. Nella prima occasione, il 2 ottobre 1979, il pontefice polacco ribadì la condanna della corsa agli armamenti, evidenziando, con grande lungimiranza, anche la problematica del “diritto alla proprietà e al lavoro, a condizioni eque di lavoro e ad un giusto salario”. Al tempo stesso, papa Wojtyla difese la libertà religiosa: l’aggressione ai “beni spirituali”, disse, “è ugualmente pericolosa per la pace, perché riguarda sempre l’uomo nella sua integralità”, non meno della lesione dell’uomo nei suoi “beni materiali”. Sedici anni dopo, il 5 ottobre 1995, Giovanni Paolo II condannò il “nazionalismo, specie nelle sue espressioni più radicali”, con riferimento alle guerre civili nei Balcani, che aveva riportato gli orrori del conflitto in Europa, dopo quasi mezzo secolo di pace.

Visitando le Nazioni Unite, il 18 aprile 2008, Benedetto XVI mise in guardia dallo strapotere della “ricerca scientifica e tecnologica” senza limiti, specie quando questa rappresentava “una chiara violazione dell’ordine della creazione, sino al punto in cui non soltanto viene contraddetto il carattere sacro della vita, ma la stessa persona umana e la famiglia vengono derubate della loro identità naturale”.

Nel discorso di papa Francesco alle Nazioni Unite (24 settembre 2015), infine, l’elemento di novità più forte è stata l’individuazione di un “diritto dell’ambiente”, accanto ai diritti più strettamente umani. Per Bergoglio, la distruzione ambientale comporta un “inarrestabile processo di esclusione” ai danni dei “deboli” e dei “meno abili”, travolti dalla “brama egoistica e illimitata di potere e di benessere materiale” dei potenti. In quell’occasione, il Papa tuonò contro il “lavoro schiavizzato”, il “traffico di droghe e di armi”, il “terrorismo” e, più in generale, contro il “crimine internazionale organizzato”.

I diritti umani sono una delle più nobili declinazioni terrene dei principi cristiani. Anche chi non crede in Dio, può credervi e coltivarli. Al tempo stesso, però un genuino e fruttuoso dialogo tra cristiani, credenti, atei e agnostici, aiuterà a comprendere con più profondità questo dono così prezioso e, al tempo stesso, così equivocato o disprezzato.