La grande avventura degli Europei di calcio sta per concludersi, tra emozioni, polemiche e un’attenzione mediatica senza pari. È stata una manifestazione sportiva atipica per varie ragioni: lo slittamento di un anno rispetto alle date originariamente previste, le criticità legate ai parametri anti-Covid, la distribuzione dei match non più su uno o due paesi, come fino a cinque anni fa, ma su dodici stadi in altrettante nazioni europee.
Nessuna competizione calcistica era mai stata caratterizzata da un così alto contenuto ideologico. Si pensi, in primo luogo, all’illuminazione arcobaleno dell’Allianz Arena di Monaco, in occasione del match Germania-Ungheria, disputato il 23 giugno. L’iniziativa è stata lanciata dal sindaco del capoluogo bavarese in segno di protesta contro la legge ungherese sulla protezione dei minori, che imprime un duro colpo all’educazione gender nelle scuole magiare. Nel frattempo, alcune nazionali dei paesi più gay friendly (Germania e Inghilterra) mandavano in campo i loro capitani con una vistosa fascia arcobaleno per celebrare il Pride Month.
Ha lasciato davvero stupiti l’atteggiamento cerchiobottista dell’UEFA che, dapprima, ha chiesto spiegazioni, interpretando tali gesti come atti politici, salvo poi ritirare ogni azione disciplinare e accodarsi alle giaculatorie arcobaleno. Il tutto a testimonianza della sempre maggiore forza delle lobby lgbt che puntano al mondo sportivo per lanciare precisi messaggi ai giovani.
Altro punto critico: gli inginocchiamenti di talune nazionali, in segno di sfida contro ogni forma di razzismo. In questo caso, ha spiccato l’atteggiamento ondivago della nazionale italiana, tuttavia l’elemento più sconcertante è stato il totale rifiuto del dibattito in talune aree politiche e culturali. Fermo restando che la condanna del razzismo dovrebbe essere un valore pacificamente e universalmente condiviso, rimane il fatto che anche i gesti simbolici non vanno sottovalutati, né interpretati superficialmente. A nostro parere, l’atto di inginocchiarsi, sia pure per una nobile causa, è discutibile per due ordini di motivi. In primo luogo, per i cristiani, la genuflessione è una postura sacralmente connotabile: ci si inginocchia solamente davanti a Dio-Eucaristia o, al limite, di fronte alla persona che si ama, al proprio coniuge, con cui si intreccia un legame sacramentale e trascendente, quindi non soltanto umano.
L’altro risvolto che rende controverso questo gesto è la sua origine: la genuflessione antirazzista aveva preso piede, anche a livello istituzionale, poco più di un anno fa, all’indomani del delitto Floyd a Minneapolis. Si è così conferita un’adesione simbolica alle propagande di Black Lives Matter, che, come già spiegammo l’anno scorso, hanno natura e finalità molto discutibili, che vanno ben oltre il semplice perseguimento della pari dignità tra le etnie. Che un movimento così propenso alla cancel culture, sospettato persino di attività terroristica e sovversiva debba prendersi il totale monopolio della causa antirazzista è – lo ribadiamo per l’ennesima volta – qualcosa di scandaloso e inaccettabile.
L’ideologia, però, è destinata a infrangersi contro il muro della realtà e della vita vissuta. Mentre i proclami astratti non scaldano il cuore e sono destinati a dividere piuttosto che unire, i fatti concreti che accadono indipendentemente dalla nostra volontà sono destinati a colpirci, sorprenderci e plasmarci nel profondo dell’anima. Ci riferiamo a quelle esperienze, anche dolorose, da cui, però, di solito, germoglia il lato migliore di ogni persona.
Durante questi Europei abbiamo assistito due episodi che parlano da soli. Il primo è avvenuto il secondo giorno della competizione, durante il match Danimarca-Finlandia. Al 43’ di gioco, il centrocampista dell’Inter e della nazionale danese Christian Eriksen, colpito da malore, si è accasciato al suolo, rimanendo privo di conoscenza per un’interminabile dozzina di minuti. Ha commosso il mondo intero l’immagine della moglie del calciatore che, disperata, si precipitava in campo, consolata dall’abbraccio del ct Kasper Hjulmand e di un paio di giocatori. Una scena semplice ma significativa: l’affetto e la solidarietà sincera verso una famiglia in improvvisa difficoltà, uno slancio che va oltre tutti i tabù sanitariamente corretti dei nostri giorni. Immagini che valgono più di mille parole.
A conclusione della semifinale Italia-Spagna, poi, hanno spiazzato le signorili dichiarazioni del ct iberico Luis Enrique, a commento di una partita perduta, in cui la sua squadra non avrebbe demeritato di passare il turno. “Voglio fare i complimenti all’Italia, spero che in finale possa vincere questo Europeo. Tiferò per gli azzurri”. Poi ha aggiunto: “Sono stanco di vedere le lacrime nei tornei di ragazzi o bambini, non so perché piangano. Devi iniziare a gestire la sconfitta, a congratularti con il tuo avversario e insegnare ai bambini a non piangere”. Queste le parole di un uomo che, due anni fa, ha subito il peggior lutto che un uomo possa sopportare. Dopo la morte della figlioletta Xana, di soli nove anni, a causa di un male incurabile, Enrique ha saputo andare avanti con dignità, riprendendo ad allenare con più convinzione di prima. I grandi dolori della vita rappresentano il momento spartiacque per chiunque: chiudersi nel silenzio e nella rabbia oppure iniziare a vivere ogni cosa con occhi nuovi, spostando lo sguardo su ciò che conta di più, relativizzando il transitorio e sacralizzando il definitivo. Dio passa anche per tutto questo, anche perché Lui stesso ci è passato.