Casalpalocco è un luogo a me molto familiare. È il quartiere adiacente al mio, ci ho trascorso i miei cinque anni di liceo e non solo quelli. Conosco bene ognuna di quelle strade, quelle villette immerse nel verde e nei pini marittimi che, negli anni ’90, come dice Nanni Moretti in Caro diario, evocavano così tanto la pizza d’asporto nei suoi cartoni e i film nelle vecchie videocassette a noleggio. Certo, al di là dell’aspetto più che presentabile – specie se paragonato a molte altre zone di Roma – non è un quartiere perfetto né lo sono i suoi abitanti.
Se c’è un disagio diffuso a Casalpalocco e in altri quartieri residenziali romani è uno strano e impercettibile disagio da troppo benessere. Così lo percepivo trent’anni fa, quand’ero adolescente, e così, evidentemente, è anche oggi. Troppo spesso, venendo a conoscenza degli abitanti di quel quartiere, si coglie – senza voler generalizzare – l’idea di tante persone “sazie e disperate”, il cui unico Dio è l’immagine o la ricchezza. Quando si diventa vittime di questo tipo di idoli, la nemesi è dietro l’angolo e non è affatto indolore. La tragedia capitata mercoledì scorso nel quartiere residenziale romano non è stata una fatalità ma è il quasi inevitabile esito di una deriva incontrollabile e di un sonno della ragione, determinato proprio da idolatrie destinate a fare danni incalcolabili.
I cinque ventenni che hanno provocato la morte di un bimbo di cinque anni e il ferimento grave della mamma e della sorellina, erano ragazzi fortemente motivati dall’idea di apparire sui social, di cercare “emozioni forti” e, soprattutto, guadagni facili. Non erano ragazzi “devianti”, erano tutti incensurati, non venivano da famiglie povere (tutt’altro) o disagiate. Erano giovani integrati con i propri coetanei, conosciuti come brillanti, simpatici, magari un po’ vivaci e chiassosi ma dinamici e creativi.
Adesso che gli inquirenti stanno analizzando i loro smartphone, per stabilire un eventuale nesso tra i video che filmavano e pubblicavano e la tragedia che poi si è consumata, la domanda che sorge più spontanea è: per cosa vale la pena vivere? Siamo davvero sicuri che entrare nel guinness dei primati per aver guidato 50 ore di seguito sia qualcosa che rende degni di rispetto e stima?
Fermo restando che, in questo raccapricciante episodio, i giovani youtuber palocchini sono innocenti fino a prova contraria, rimane legittimo domandarsi se sullo stile di vita che loro stessi, fino all’altro ieri, hanno sbandierato ed esibito, non vi sia stata fin troppa accondiscendenza da parte degli adulti. L’influencer è considerato un modello vincente per giovani e meno giovani. Anche se non è chiaro esattamente di cosa si occupa. Anche se non è chiaro a tutti come si guadagna e quale sia il segreto del successo per costoro.
Sullo sfondo, c’è un paradosso inquietante, legato proprio al rapporto tra giovani e denaro. Fino a non molti anni fa, era difficilissimo, quasi impossibile, diventare ricchi a 18-20 anni. In compenso, chiunque aveva ben chiaro in mente che, con un pizzico di sacrificio e qualche anno di gavetta, una certa sicurezza lavorativa e un sobrio benessere sarebbero stati alla portata di tutti. Oggi la prospettiva è completamente ribaltata: la precarietà lavorativa sembra essere il destino inevitabile per le nuove generazioni. In compenso, si sta radicando la credenza che, facendo il tiktoker, lo youtuber o l’influencer, si possano guadagnare soldi a palate, in tempi rapidi, senza grande fatica e persino senza avere chissà quali talenti. Qualcuno forse potrà anche riuscirci ma il prezzo più grande è la perdita del senso della realtà, che, come si è visto, può provocare conseguenze anche molto gravi.
Di fronte a tanta megalomania, tanta avidità e tanta finta trasgressione, la vera sfida alternativa alle challenges degli youtuber palocchini è nel ritrovare quel senso del limite che, ben lungi dal privarci della libertà, aiuta a indirizzarci meglio nelle nostre scelte e, soprattutto, nel capire bene la nostra identità e vocazione.