Il #4Luglio è una festa cara un po’ anche a noi europei. Gli #StatiUniti d’America sono il paese straniero più presente nel nostro quotidiano e nella memoria collettiva. Nel bene o nel male, le ultime quattro generazioni sono cresciute con l’America dentro casa: i suoi film, la sua musica, le sue mode a tutti i livelli. Per noi italiani, poi, l’America è stata a lungo sinonimo di speranza: per i nostri bisnonni, che più di un secolo fa, partivano oltreoceano a bordo dei piroscafi, in cerca di fortuna; per i nostri nonni, che hanno visto la fine della guerra, il Piano Marshall e gli aiuti della nuova superpotenza mondiale; per i nostri genitori che hanno vissuto la grande stagione dei diritti umani negli anni ’60 e le proteste contro l’imperialismo e contro tutte le guerre. L’America è tutto questo e molto altro.
Si potrebbero spendere fiumi e fiumi d’inchiostro per provare a spiegare il perché della “fortuna” degli Stati Uniti nel mondo, come, a 240 anni dalla Dichiarazione d’Indipendenza, questo immenso e atipico paese abbia rappresentato un’eccezione nella storia. Il grande asso nella manica per gli americani è sempre stato lo straordinario valore attribuito alla libertà, come principio umano e creativo, che li ha posti sempre all’avanguardia in ogni campo. Una libertà a trecentosessanta gradi che, in quanto tale, ha sempre messo nel conto il rischio di sbagliare e di cadere in contraddizione. Al punto che un paese nato in nome della ribellione all’imperialismo britannico, è diventato simbolo esso stesso di imperialismo economico e militare. Gli Stati Uniti, nazione culla degli human rights, dove tutti i cittadini sono “creati uguali”, è anche il paese occidentale dove si è consumato il genocidio dei pellerossa, dove la schiavitù e la segregazione ai danni dei neri sono state abolite più tardi, dove il razzismo è ancora molto radicato nella popolazione e dove gli scontri etnici sono diffusi, come abbiamo visto dai tragici fatti di cronaca degli ultimi due mesi. Per non parlare della diffusione indiscriminata delle armi a uso privato e della pena di morte ancora vigente nella maggior parte degli stati.
C’è però un ambito in cui all’America nessun altro paese ha nulla da insegnare: la libertà religiosa. I padri pellegrini che giunsero sulle coste dell’attuale New England nel XVII secolo, sono il simbolo di un cristianesimo che fuggiva dai fanatismi delle guerre di religione europee e che, nei secoli, ha costruito una civiltà all’insegna del pluralismo religioso, della condivisione dei valori fondamentali e di una “laicità positiva”, in nome della quale i principi spirituali permeavano profondamente la vita quotidiana di ogni cittadino, indipendentemente dall’appartenenza ecclesiale. È anche per questo che, ancora oggi, gli americani nominano così frequentemente Dio nei discorsi pubblici e non si vergognano di manifestare la loro spiritualità. Naturalmente anche il cammino della libertà religiosa in America non è stato privo di ostacoli e, per parecchio tempo, a farne le spese più di altri sono stati proprio i cattolici (irlandesi e italiani in particolare). Ciò non toglie che, al giorno d’oggi, a differenza dell’Europa, in America il dibattito religioso è più vivo che mai, ogni credo e ogni chiesa hanno diritto di cittadinanza e il confronto tra atei e credenti non è un tabù, nemmeno a livello accademico.
Questa vocazione e questa missione dell’America non è sfuggita ai pontefici che l’hanno visitata nel corso degli ultimi 50-60 anni. Il primo a mettere piede sul suolo statunitense fu San Paolo VI, in occasione del suo storico discorso alle Nazioni Unite, il 4 ottobre 1965. Appena giunto a New York, papa Montini non esitò a salutare gli USA come un paese “forte”, “libero”, “operoso”, “pieno di meraviglie”, una “civiltà assai moderna”, fondata sulla “fratellanza dei suoi cittadini”.
San Giovanni Paolo II si è recato negli USA ben sette volte (1979, 1981, 1984, 1987, 1993, 1995, 1999) e, durante la sua prima visita, elogiò il popolo americano per il suo “profondo senso religioso”, per il “rispetto del dovere” e per la “generosità nel servizio all’umanità”. In occasione del suo quarto viaggio, papa Wojtyla individuò l’“identità più profonda” della nazione americana nel suo “atteggiamento verso l’uomo”, in modo particolare “il più debole e indifeso”. Qualche anno dopo, parlò della “libertà” come “grande dono” e “grande benedizione di Dio” per il popolo americano, da custodire e coltivare affinché l’America adempisse “la sua missione nel mondo”, sulla scia delle parole del Giuramento di Fedeltà, che tutti gli studenti pronunciavano ogni giorno a scuola fino a non molti anni fa: “Una Nazione al cospetto di Dio, indivisibile, con libertà e giustizia per tutti”. Nella sua penultima visita, poi, Giovanni Paolo II si soffermò sulla speranza che l’America ha sempre rappresentato per i più poveri, continuando ad essere “una terra promessa fin quando rimarrà una terra di libertà e di giustizia per tutti”.
Da parte sua, il papa emerito Benedetto XVI, nel suo discorso alla Casa Bianca del 2008, ricordò che “sin dagli albori della Repubblica, la ricerca di libertà dell’America è stata guidata dal convincimento che i principi che governano la vita politica e sociale sono intimamente collegati con un ordine morale, basato sulla signoria di Dio Creatore”. Ratzinger auspicò che, di fronte alle sfide che li attendevano, gli americani potessero “trovare nelle loro credenze religiose una fonte preziosa di discernimento ed un’ispirazione per perseguire un dialogo ragionevole, responsabile e rispettoso nello sforzo di edificare una società più umana e più libera”. Il pontefice tedesco, inoltre, fece l’elogio di “quanti hanno sacrificato la loro vita in difesa della libertà, sia nella propria terra che altrove”: di costoro – sottolineò – quasi ogni città di questo Paese possiede i suoi monumenti (quegli stessi monumenti che, in queste settimane, alcuni sedicenti antirazzisti si stanno premurando di abbattere…).
L’ultimo viaggio pontificio negli USA è stato quello di papa Francesco che, il 24 settembre 2015, alla vigilia dell’Incontro Mondiale delle Famiglie di Philadelphia, fu ospite a Washington al Congresso. In quell’occasione, Bergoglio, come il suo predecessore, omaggiò i “grandi americani” che diedero forma “a valori fondamentali che resteranno per sempre nello spirito del popolo americani”, menzionando in modo particolare “Abraham Lincoln, Martin Luther King, Dorothy Day e Thomas Merton”. Lincoln in particolare, fu indicato da Francesco come colui che lavorò instancabilmente perché “questa nazione, con la protezione di Dio, potesse avere una nuova nascita di libertà”.
L’America che si appresta ad andare alle urne il prossimo 3 novembre, per scegliere tra il presidente uscente Donald Trump e l’ex vicepresidente Joe Biden, è una nazione posta di fronte a uno dei tanti crocevia della sua storia. Mentre la minaccia del terrorismo islamico, almeno per il momento, è passata in secondo piano, la leadership mondiale degli USA è messa in discussione, in modo particolare sul piano tecnologico e commerciale, dallo strapotere della Cina, con cui è in corso la “guerra dei dazi” e una disputa accesissima sul ruolo dell’OMS. Al suo interno il Paese deve fare i conti con la doppia crisi economico-sanitaria, cui si sono intrecciate le tensioni razziali, riesplose in modo sorprendente dopo parecchi anni. Queste ultime sembrano avere un carattere molto più capzioso e ideologico che in passato, in quanto, andando oltre la pura e semplice contestazione delle disuguaglianze, paiono mettere in discussione gli stessi fondamenti e principi che hanno reso grande l’America. Il Paese si trova così di fronte ad un bivio: un caos nichilista, in cui, alla fine, trionferebbero i poteri forti, oppure la riscoperta delle proprie radici e una riconciliazione tra tutte le componenti del proprio popolo. C’è da scommettere che se l’America non rinnegherà Dio, tornerà grande e pacificata in tutti i sensi. E anche il resto del mondo avrà tutto da guadagnarci.