Green pass in Chiesa? S’apra il dibattito…

Messa chiesa green pass
Foto: CC0 Pixabay

Tale Stato, tale Chiesa. L’allineamento della Conferenza Episcopale Italiana in termini di politiche sanitarie è piuttosto significativo. Erano decenni che non si registrava una così forte sintonia su questo e su altri temi. Il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della CEI, ha addirittura definito il premier Mario Draghi come un “grande statista”, dotato di “umanità” e “intelligenza”, collocato in questo tempo nientemeno che dalla “Provvidenza”.

Molti dei provvedimenti, formali o informali, emessi dalla Conferenza Episcopale e dalle varie diocesi ricalcano molto i decreti attualmente in discussione al Consiglio dei Ministri o in Parlamento. In alcuni casi, addirittura, la Chiesa ha anticipato nel suo ambito quello che, in seguito, il governo avrebbe messo in campo, ad esempio, per i luoghi di lavoro. Prima ancora che Palazzo Chigi imponesse il green pass obbligatorio negli uffici, nei negozi o nei ristoranti, la CEI diffondeva una sua lettera di natura esortativa, dal titolo Curare le relazioni al tempo della ripresa. Ai fini della ripresa delle attività pastorali in presenza, i vescovi hanno suggerito “alcune linee operative” per ridurre i contagi, suggerendo in primo luogo la vaccinazione alle seguenti categorie: “quanti sono coinvolti in attività caritative”; “catechisti”; “educatori”; “volontari nelle attività ricreative”; “coristi” e “cantori”.

Nell’arcidiocesi di Milano tale prescrizione ha avuto un carattere più formale, essendo stata espressa in un decreto “circa alcune misure di contrasto alla pandemia”. Il vicario generale dell’arcidiocesi ambrosiana, monsignor Franco Agnesi, ha quindi disposto per le medesime categorie menzionate dalla CEI, l’obbligo vaccinale o, in alternativa, il tampone negativo non anteriore alle 48 ore dall’attività svolta in parrocchia o in diocesi, oppure la certificazione di guarigione a non oltre 180 giorni dall’infezione al SARS-CoV-2: le stesse identiche condizioni richieste per l’ottenimento del green pass governativo. “Gli Accoliti e i Ministri straordinari della Comunione e i catechisti, gli educatori e gli altri operatori di attività educative e didattiche, i coristi e i cantori si impegneranno in forma scritta a rispettare le suddette disposizioni”, si legge nella nota. Con un’eccezione: “La visita ai fedeli in pericolo di morte in circostanze di urgenza, qualora non fosse possibile ottemperare a quanto stabilito, è comunque consentita”.

Numerose altre diocesi e conferenze episcopali regionali hanno aderito al documento della CEI, sollecitando le parrocchie ad adeguarsi ai nuovi protocolli sanitari. Il tutto sulla scia di quanto esortato anche da papa Francesco: “Vaccinarsi, con vaccini autorizzati dalle autorità competenti, è un atto di amore – ha detto il Pontefice nel suo messaggio ai popoli latino-americani –. E contribuire a far sì che la maggior parte della gente si vaccini è un atto di amore. Amore per sé stessi, amore per familiari e amici, amore per tutti i popoli”.

Ammesso e non concesso che il vaccino sia l’unico mezzo di prevenzione del Sars-CoV-2, volendo accogliere le parole del Santo Padre, dovremmo però dire che un atto d’amore forzato – in tal caso obbligatorio per legge – sarebbe una contraddizione in termini. Anche per questo, l’istituzione del green pass o di analoghe forme di restrizione all’accesso alle attività parrocchiali – pur rimanendo libera la partecipazione alla messa e ai sacramenti – suscita più di una perplessità, per una serie di motivi. In primo luogo, perché la Chiesa è sempre stata uno spazio aperto a tutti e un’istituzione contraria alle discriminazioni. Più volte, lo stesso papa Francesco si è espresso contro le “dogane” e gli esclusivismi farisaici che trasformano la Chiesa da luogo di fratellanza e di redenzione a club elitario di “iniziati”, dove gli interessi mondani prevalgono sui legami spirituali. Chi non è vaccinato, dunque, non andrebbe trattato da “presunto untore”, tanto più che anche i vaccinati possono contagiare e contagiarsi tra loro.

Altro motivo di perplessità, strettamente legato al precedente, è da individuarsi proprio nel fatto che la Chiesa, salvo pochissimi dogmi sovrannaturali e una manciata di principi direttamente deducibili dal decalogo mosaico, è un luogo di libera discussione delle idee. Per quanto tra i cattolici praticanti, coloro che hanno una visione della pandemia non allineata a quella prevalente, possano essere una minoranza, le loro posizioni non andrebbero mai liquidate come mancanza di fede o di carità. Il loro punto di vista andrebbe, al contrario, ascoltato e confrontato con le altre posizioni. Se però, per determinate funzioni pastorali, catechetiche o liturgiche, viene circoscritto l’accesso, già si sta determinando una discriminazione e una divisione in “caste” che non trova fondamento alcuno né nel Vangelo, né nel Magistero. Tutto questo non aiuta per nulla le comunità ad essere unite ma, al contrario, semina la zizzania e fomenta diffidenze e rancori.

Ultimo (ma non meno importante) nodo critico: il rapporto tra scienza e fede. A dispetto delle leggende nere su Galileo, la Chiesa non è mai stata nemica della scienza (Copernico, Mendel, Barsanti e molti altri, oltre che scienziati e inventori, erano anche sacerdoti) e, in particolare a partire dal Concilio Vaticano II, questo rapporto si è fatto più armonioso e fecondo. Per essere credibile, tuttavia, la scienza deve sapersi mettersi continuamente in discussione, altrimenti cade essa stessa nel dogmatismo. È quello che sfortunatamente sta avvenendo nel momento attuale: lo vediamo nella caccia alle streghe contro i veri o presunti no vax o contro i medici sostenitori delle cure domiciliari, etichettati da taluni proprio come “stregoni”. Se la Chiesa si dovesse lasciare travolgere dalla virulenza di questo pseudodibattito, rischierebbe paradossalmente di ricadere in un nuovo strano oscurantismo, persino peggiore di quello che, a torto o ragione, le è stato attribuito in passato.