Non avremmo più voluto trattare notizie come queste. Nel cuore di questa caldissima e inquieta estate, a pochi giorni dal quinto anniversario della tragica morte del piccolo Charlie Gard, un altro bambino, stavolta quasi adolescente, è stato sacrificato sull’altare del “miglior interesse”. Per il dodicenne Archie Battersbee non sono serviti gli strazianti appelli della mamma, né i ricorsi ai più alti organi giudiziari britannici ed europei e nemmeno la disponibilità a curarlo in Italia o in Giappone.
Archie era finito in coma lo scorso 7 aprile, nella sua casa di Southend, nell’Essex. Un incidente domestico scaturito in circostanze oscure. La madre, Hollie Dance, aveva trovato il ragazzo esanime, con una fascetta stretta sulla fronte: si è sospettato subito Archie possa aver partecipato a qualche pericolosa competizione sui social, a sfondo autolesionista. Rimane il fatto che, nei suoi quattro mesi di ricovero al Royal London Hospital, il giovanissimo paziente è stato più volte giudicato “cerebralmente morto”, a seguito delle risonanze magnetiche cui è stato sottoposto. I sanitari hanno quindi disposto la sospensione dei sostegni vitali e dell’ossigenazione, che, inevitabilmente, porterebbe Archie alla morte.
Separati da anni, papà Paul e mamma Hollie sono stati più che mai uniti e concordi nel lottare per la vita del figlio. In particolare, Hollie ha più volte riferito di aver riscontrato dei gradualissimi miglioramenti in Archie che, in alcune circostanze, avrebbe cercato di stringere la mano della mamma mentre lo accarezzava; le terrificanti diagnosi del personale medico sono quindi state poste in discussione. Ultimo desiderio della famiglia è stato quello di trasferire Archie in un hospice, dove potesse trascorrere gli ultimi giorni di vita. L’Alta Corte britannica, prima, la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, poi, sono state concordi nel dare ragione al Royal London Hospital e torto ai genitori di Archie Battersbee: nella loro ottica, privare un paziente dodicenne dei suoi supporti vitali, condannandolo a un’atroce morte per fame e per sete, sarebbe lecito; curarlo e dargli una chance per vivere ancora, è considerato eversivo e contrario al “miglior interesse” del paziente stesso.
Nel 2019, la piccola Tafida Raqeeb fu salvata da una sentenza di morte simile, consentendo ai genitori di curarla all’ospedale pediatrico “Gaslini” di Genova; avevamo così iniziato a sperare in un’inversione di tendenza sull’eutanasia infantile nel Regno Unito e nel resto del mondo. Quella di Tafida, purtroppo, è stata soltanto una parentesi virtuosa. La strisciante cultura della morte non attanaglia soltanto la Gran Bretagna. È notizia di questi giorni, la presentazione di un progetto di legge al Parlamento olandese, per l’estensione dell’eutanasia ai minori di 12 anni, mentre in Italia, Marco Cappato (in piena campagna elettorale!) si è reso protagonista dell’ennesimo caso politico-mediatico, accompagnando una signora a morire in una clinica svizzera.
Da oltremanica, grazie a Dio, non arrivano solo pessime notizie. La scorsa settimana è stata annunciata la chiusura del Tavistock Centre, clinica al centro di un caso giudiziario, conclusosi con il risarcimento a beneficio di un nutrito gruppo di pazienti, sottoposti negli anni scorsi a transizione di genere. Una notizia buona ma soltanto a metà: dalla stessa relazione del sistema sanitario britannico, che ha giudicato inadeguati i servizi offerti dalla Tavistock, emerge l’idea di aprire ulteriori e più “efficienti” strutture analoghe.
Non è in discussione, dunque, la possibilità per un adolescente di cambiare sesso, quanto, piuttosto, la modalità con cui la transizione di genere verrebbe realizzata. Specie dopo la testimonianza di Keira Bell, oggi venticinquenne, sottoposta a trattamenti ormonali e poi chirurgici dall’età di 16 anni, sono stati infatti riscontrati gravi problemi nello sviluppo psico-fisico di questi giovani pazienti. Le cure venivano infatti prescritte con estrema disinvoltura, dando pochissimo peso al percorso psicoterapeutico, che avrebbe potuto aiutarli a comprendere davvero in fondo i problemi legati alla loro identità sessuale e a non assumere decisioni così drastiche riguardo al proprio corpo.
La vicenda di Archie Battersbee e quella del Tavistock Centre sono molto più connesse di quanto si pensi, dal momento in cui toccano il tasto delicatissimo della vita, della salute e del corpo dei minori e, in particolare, degli adolescenti. In fondo, che la sanità britannica possa aver fatto un passo indietro sulla transizione di genere è dovuto essenzialmente a motivi utilitaristici: l’idea di dover risarcire dei danni spaventa terribilmente i fautori del “miglior interesse”, secondo i quali qualunque malato grave è soltanto un peso per la collettività e una spesa per le casse pubbliche. Analogamente, troppi danneggiati dalla transizione di genere, oltre che un costo sociale, risulterebbero un pessimo biglietto da visita per una rivoluzione antropologica che, com’è noto, trova il suo “brodo di coltura” nelle giovani generazioni.
Anche se non animata da ragioni “eticamente alte”, la chiusura del Tavistock Centre rimane un fatto da accogliere positivamente. Spesso è il male ad implodere su stesso, soccombendo sotto le sue stesse contraddizioni. Ciò non toglie che, dall’altra parte della barricata, un atteggiamento vigile ed attivo rimane necessario. Non basta denunciare i danni della cultura della morte e del brutto, è necessario riaffermare ogni giorno, con i fatti e – se necessario – con le parole, una cultura della vita e della bellezza, disarmando il nemico, prima ancora che questo possa aprire il fuoco.