La mattinata dell’11 febbraio 2013 era iniziata come un qualsiasi lunedì d’inverno. Con l’agenzia stampa per cui lavoravo allora, tenemmo la nostra consueta riunione di programmazione settimanale in una saletta a due passi da piazza San Pietro. In quei giorni, a livello di notizie ecclesiali, era decisamente calma piatta: trascorse le festività natalizie, ancora non si era entrati nella Quaresima (con i relativi esercizi spirituali della Curia Romana), quindi, anche per la Santa Sede, si era in un momento di assoluta routine. Il 2013 sembrava scorrere decisamente meno incandescente rispetto all’anno precedente, segnato dall’epocale scandalo di Vatileaks. A tale riguardo, la grazia accordata da papa Benedetto XVI al suo ex maggiordomo Paolo Gabriele sembrava condurre a un momento di sicura tregua intorno a quell’oscura e inquietante vicenda.
Nell’incamminarmi verso casa (ebbene sì, già allora esisteva lo smart working…), cercai di tenere bene in mente ciò su cui avrei dovuto scrivere in quei giorni: tutto nell’ordinario, nulla di esaltante, né di adrenalinico. Salii sulla metro, assieme a una collega spagnola che, all’epoca, abitava non distante da me. Poco dopo, lei tirò fuori il cellulare e mi riferì di una sua parente che le chiedeva conto del Pontefice che rassegnava le dimissioni. “Sarà una bufala”, fu il mio commento a bruciapelo. La cosa non era improbabile, viste le numerose fake news circolate in tutti quegli anni intorno alla figura di Joseph Ratzinger. Era però nostro dovere approfondire. Scoprimmo così che quella notizia, battuta per prima dall’Ansa, era stata ripresa dalle testate online di mezzo mondo. Poi rinvenimmo la comunicazione ufficiale della Santa Sede e, assieme ad essa, l’ormai storica declaratio di Benedetto XVI: “[…] nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma”.
“Dobbiamo andare subito in Sala Stampa!”, disse la mia collega, emettendo una strana sommessa risata. Scendemmo così alla fermata successiva, per riprendere la metropolitana nella direzione opposta: quella del Vaticano. Una lunga corsa con il cuore in gola, lungo viale Ottaviano, piazza Risorgimento, Borgo Pio, Porta Sant’Anna, poi finalmente lungo il colonnato e i portici di via della Conciliazione, fino alla conferenza stampa più importante della nostra vita. La Sala Stampa era colma all’inverosimile, c’erano proprio tutti, compresi i colleghi più saltuari, senza contare molti altri, accreditatisi per l’occasione. Una gran folla e, a tratti, anche un insolito irreale silenzio. L’allora portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, S.I. cercò di razionalizzare l’incredibile novità ma nelle domande dei giornalisti si leggeva un’inquietudine che non trovava sbocco: dove sarebbe andato a vivere il Papa? Avrebbe mantenuto nome, titolo e abito bianco? Alla sua morte, sarebbe stato sepolto in Vaticano come tutti gli altri Papi? Erano dilemmi tutt’altro che peregrini. C’era chi non si dava pace, ma c’era anche chi accoglieva quel gesto del Santo Padre come un atto di umiltà e come una sfida a pregare di più per una Chiesa per la quale iniziavano tempi straordinari e in gran parte indecifrabili.
Cosa significano le dimissioni di papa Benedetto XVI, a distanza di un decennio? In primo luogo, sono il segno di una Chiesa debole, indipendentemente da chi la guida o dai suoi uomini di maggior rilievo. Se la Chiesa è il corpo mistico terreno di Gesù Cristo è inevitabile che, in certi passaggi, ne debba ripercorrere il Getsemani, il Calvario e la Croce. La rinuncia al pontificato di Benedetto XVI non ha nulla che vedere con quella – avvenuta oltre sette secoli prima – di Celestino V, che lasciò il soglio pontificio per adempiere ad una vocazione monastica. Ratzinger rinuncia al munus petrino non tanto per incapacità o debolezza quanto primariamente per il bene della Chiesa tutta. Un bene che ha i contorni di un mistero e di un sovvertimento delle logiche umane, a beneficio di una volontà divina sicuramente imperscrutabile e dura da comprendere ma, al fondo, profondamente benigna.
La convivenza di due pontefici nell’arco di quasi un decennio, entrambi vestiti di bianco, entrambi abitanti in Vaticano, entrambi accomunati dal titolo di Papa, è risultata inaccettabile per molti. Tanto più che tale convivenza ha coinvolto due personalità sensibilmente diverse, secondo alcuni profondamente incompatibili, per molti altri semplicemente complementari. Il fatto stesso che un Papa abbia abdicato e che il suo successore abbia impresso dei cambiamenti molto radicali, da molti è visto con un certo sospetto. C’è chi fantastica di guerre (finora solo psicologiche) tra papi e antipapi, quasi come in epoca medioeval-rinascimentale, altri hanno visto in questa convivenza, un segno di progresso all’interno di una Chiesa in grado di conciliare gli opposti, di amalgamare sensibilità anche molto diverse, senza per questo dare adito a scismi.
È stato lo stesso papa Francesco ad affermare di recente che la morte del suo predecessore sarebbe stata strumentalizzata da gente non “di Chiesa” ma “di partito”. Anche questo parlare fuori dai denti da parte di un Papa regnante nell’affrontare un tema così delicato che lo riguarda di persona, è un segno dei tempi. Bergoglio seguirà Ratzinger nella sua opzione dimissionaria? Indubbiamente, il pontefice argentino ha apportato molti notevoli mutamenti sia di forma che di sostanza ma in ciò è stato facilitato da un gesto rivoluzionario del suo predecessore che, in tal modo, ha fatto da apripista a un’“epoca di cambiamenti” che, come affermato più volte dallo stesso Francesco, è diventato un “cambiamento d’epoca”. In questo cambiamento ciascuno di noi è immerso e non può prescindervi. Ogni cambiamento, tuttavia, sottintende una conversione spirituale ed è qui che si gioca la libertà dell’uomo. Quello compiuto da Benedetto XVI dieci anni fa esatti fu un grande gesto di libertà e, per quanto incomprensibile a molti, ci sono buone ragioni per pensare che quel gesto concorreva – e ancora concorre – al bene e alla salvezza dell’umanità.