40 ANNI DOPO / John Lennon: dietro la maschera del mito

John Lennon: dietro la maschera del mito
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Curiosamente morì un 8 dicembre, solennità dell’Immacolata. Ed era nato in ottobre, mese mariano. Certo, di primo acchito è difficile pensare qualcuno più lontano dal cattolicesimo di John Lennon (1940-1980). L’artista che cantava “immagina non esista il paradiso”, colui che, all’apice della carriera dei suoi mitici Beatles, si autodefinì “più famoso di Gesù Cristo”. Genio e sregolatezza. Un concentrato di contraddizioni: umanitarismo e venalità; aggressività e pacifismo; forza e fragilità; spontaneità e opportunismo.

Quella del musicista di Liverpool è la parabola di una persona che, cercando, esaltando e cantando in modo estremo la propria libertà, si è ritrovata paradossalmente prigioniera del proprio mito. Come tutti gli artisti di successo, Lennon faticava a distinguere il palcoscenico dalla realtà. Anche per questo, la coerenza non era il suo forte. Eppure, la sua storia personale affascina, commuove e suscita profonda empatia, specie quando si scopre che dai drammi e dai dolori di una vita sono sbocciate le composizioni più belle.

Il più grande successo da solista di John Lennon, Imagine, è tornato in auge non molti anni fa, in occasione delle veglie contro il terrorismo islamista. Un revival quantomeno discutibile, nella misura in cui si è fatto di tutta l’erba un fascio. Davvero l’unica alternativa alla violenza a sfondo a religioso è un mondo senza Dio? Davvero l’unica possibilità di concordia tra gli esseri umani è nella rinuncia alla trascendenza e nella costruzione di un mondo utopistico tutto peace & love (magari con l’aggiunta di un po’ di drugs…)? C’è chi, negli ultimi anni, ha fatto la controesegesi di Imagine: indubbiamente è la canzone simbolo di un’epoca di illusioni, la cui essenza era in un’irrealistica fratellanza priva di padri, completamente fondata sul sovvertimento dell’ordine esistente.

Ed è proprio in questo mood generazionale che si innesta il dramma personale di John Lennon, il suo trauma di bambino abbandonato dal padre a soli due anni e per lungo tempo trascurato dalla madre. “Il dolore più grande è non essere desiderati, renderti conto che i tuoi genitori non hanno bisogno di te quando tu hai bisogno di loro – raccontò Lennon poco dopo lo scioglimento dei Beatles –. Quando ero bambino ho vissuto momenti in cui non volevo vedere la bruttezza, non volevo vedere di non essere voluto. Questa mancanza di amore è entrata nei miei occhi e nella mia mente. Non sono mai stato veramente desiderato. L’unico motivo per cui sono diventato una star è la mia repressione. Nulla mi avrebbe portato a questo se fossi stato ‘normale’”.

A 17 anni, dopo essere vissuto per molto tempo con gli zii, John perde la madre Julia in un incidente stradale, proprio nel momento in cui stava iniziando a ricostruire un rapporto con lei. Esperienze così impattanti possono atrofizzare la personalità di qualunque bambino. Oppure, nel bene o nel male, farla esplodere come un vulcano. Comunque, fu proprio da mamma Julia che il piccolo John ricevette un imprinting indelebile per la sua vita a venire. “Quando avevo cinque anni, mia madre mi ripeteva sempre che la felicità è la chiave della vita. Quando andai a scuola, mi domandarono come volessi essere da grande. Io scrissi ‘felice’. Mi dissero che non avevo capito il compito, e io dissi loro che non avevano capito la vita”. Un ragazzo così non poteva che avere il destino segnato.

L’amicizia con Paul McCartney fu cementata dal comune dramma di un lutto familiare. A 14 anni, Paul aveva perso la madre Mary per un tumore: dalla nostalgia per lei erano nati i capolavori Yesterday e Let it Be. Nello stesso spirito, John compose le meno note ma altrettanto belle Julia e Mother. Quest’ultima, introdotta da campane a morto, è il più straziante grido di dolore che un figlio possa lanciare: “Madre, tu hai avuto me, ma io non ho mai avuto te”. Unito al più struggente e irrealizzabile dei desideri: “Mamma non andare via, papà torna a casa!”.

Con dei trascorsi così, una vita sentimentale irrequieta era quasi inevitabile. Il matrimonio con Cynthia Powell, da cui nacque il primo figlio Julian (1963), fu assai instabile, viste le continue tournée di Beatles e la scarsa fedeltà di John. La precarietà della loro relazione era ben rappresentata nella canzone Girl. In Yoko Ono, sei anni più anziana di lui, Lennon trovò in seguito il suo eterno femminino. La stessa follia artistica e, al contempo, una sorta di rassicurante presenza materna che gli era sempre mancata. Un legame durato dodici anni, burrascoso anch’esso, eppure incredibilmente indissolubile. Accanto a Yoko, John visse il suo declino umano e artistico, il dramma della sua dipendenza dall’eroina, i guai giudiziari con cui rischiò l’espulsione dagli USA, dove si era stabilito nei primi anni ’70.

Sempre assieme a Yoko, miracolosamente, Lennon visse anche la sua rinascita umana, la seconda paternità, ben più consapevole della prima, il ritorno al suo grande amore, la musica. Un uomo e una donna uniti nelle tenebre e nella luce. Il suo ultimo album Double Fantasy (1980) era l’autoritratto di un’anima purificata, finalmente felice. Woman è un capolavoro post-femminista: al centro non vi è più la ragazza capricciosa e irrequieta di Girl ma la compagna fedele, forte, empatica e discreta, in grado di intuire “il bambino dentro l’uomo”, la donna che sa indicare il “significato del successo” al suo compagno, che le diventa “per sempre debitore”. Un Lennon inaspettatamente tenero e inconsapevolmente “mariano”…

In Beautiful Boy, dedicata al piccolo Sean, c’è la gioia d’essere di nuovo padre, di raccontare al proprio bambino la meraviglia di essere al mondo: “Chiudi gli occhi / non aver paura / Il mostro se n’è andato / è scappato / e tuo papà è qui”. “Prima di andare a dormire / dì una preghiera / ogni giorno / in tutti i sensi / andrà sempre meglio”. “La vita è quel che ti capita / quando sei impegnato in altri progetti”. Non più le parole di un utopista fuori dal mondo o di una rockstar esaltata ma di un uomo maturo e consapevole, profondamente calato nella realtà e orgoglioso del suo ruolo familiare.

Chissà quanto avrebbe ancora potuto raccontarci e cantarci John Lennon negli anni ’80-’90 e nel nuovo secolo. Chissà con quale spirito avrebbe vissuto i grandi cambiamenti dell’ultimo quarantennio. Sarebbe diventato l’ennesimo giullare del politicamente corretto oppure, sulla scia della svolta di Double Fantasy, avrebbe saputo ancora sorprenderci e andare controcorrente?

Un tragico destino lo attendeva la sera di quell’8 dicembre 1980 all’ingresso del Dakota Building, dove risiedeva nel cuore di Manhattan. I proiettili di un fan esaltato, cui appena sei ore prima aveva fatto l’autografo, si abbattevano su un uomo da poco felicemente approdato alla sua nuova vita. Tante rockstar muoiono nella tristezza, vittime dei loro stravizi. Per John Lennon le cose andarono diversamente. Riscoprire gli ultimi anni della sua vita, aiuterebbe moltissimo a guardare al di là del mito e degli stereotipi del divo. Rivelandoci che anche le rockstar più trasgressive sono in grado di cantare un sanissimo e radioso desiderio di famiglia, di maturazione personale e di “normalità”.