Trascorrere le vacanze al #mare, piuttosto che in #montagna, non è la stessa cosa. Sul piano “teologico” in modo particolare questi due ecosistemi evocano approcci metafisici completamente diversi. Un anno fa, avevamo accennato alla percezione negativa che gli antichi avevano del mare: un coacervo di pericoli e forze misteriose, quando non propriamente demoniache. Con il Nuovo Testamento questa concezione finirà per stemperarsi, nella misura in cui Gesù, con la sua potenza salvifica, ha vinto il Male e tutte le forze maligne, comprese quelle connesse ai fenomeni naturali. Non è un caso che Cristo scelga dei pescatori come suoi primi discepoli, con i quali è salito in barca, permettendo la pesca miracolosa (cfr Lc 5,1-11) e, in seguito, ha domato la tempesta (cfr Mc 4,35-41).
Nelle Scritture, la montagna ha una valenza simbolica completamente diversa rispetto al mare. Essa è luogo di ascesa e di ascesi, secondo una tradizione molto antica che si perpetua ancora oggi, con le gite montane degli Scout e di altri gruppi parrocchiali, mentre, in un passato non così lontano, le alture erano meta di eremiti e luogo di edificazione di monasteri e conventi. In particolar modo i benedettini – si pensi alle splendide abbazie di Subiaco e Montecassino – erano soliti posizionare le loro dimore in luoghi particolarmente panoramici, le cui viste mozzafiato rispecchiavano la vastità della creazione, nonché il lento e faticoso cammino che avvicinava l’uomo alla dimensione celeste.
Già nell’Antico Testamento, assistiamo al passaggio cruciale della consegna delle tavole della Legge a Mosè sul Sinai (cfr Es 34,1-35). È però nei Vangeli che la simbologia montana diventa più esplicita: sulle alture Gesù prega per la scelta dei suoi discepoli (cfr Lc 6,12), pronuncia il discorso delle Beatitudini, si trasfigura sul Tabor davanti a Mosè ed Elia, sotto lo sguardo di Pietro (cfr Lc 9,28b-36). Sulle montagne, Gesù si ritrova nei momenti salienti della vita comunitaria assieme ai suoi discepoli ma anche e soprattutto per pregare in solitudine il Padre. Su una montagna viene tentato dal demonio (cfr Mt 4,1-11; Mc 1,12-13; Lc 4,1-13)), poi, sul Monte degli Ulivi inizia a vivere la sua Passione (cfr Mt 26,36-36), che si concluderà su un’altra altura, il Golgota.
Anche in alcuni episodi in cui è protagonista la Madre di Dio, la metafora della montagna è presente: Maria deve attraversarne una il giorno della sua visita a Santa Elisabetta (cfr Lc 1,39-56). La vediamo, poi, assistere all’agonia del Figlio in croce: lei è tra i pochi che è voluta salire per dargli l’ultimo addio ed è proprio sul Golgota che Maria diventa Madre della Chiesa, assumendo la filiazione del discepolo prediletto Giovanni (cfr Gv 19,26-27).
Ben note sono ai fedeli, le vacanze trascorse in Valle d’Aosta da San Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI. La presenza di questi due papi tra le montagne alpine, le loro meditazioni solitarie in contemplazione del mistero della natura ci hanno regalato immagini stupende e indimenticabili: il capo della Chiesa che si faceva piccolo dinnanzi alla grandiosità dell’opera di Dio.
“Nella tradizione di tutte le culture, la montagna è vista come la sede dell’incontro tra il divino e l’umano, tra il terreno e il celeste. C’è quindi la tendenza a considerare, proprio per la sua verticalità, la montagna come il luogo dell’incontro col mistero divino”, ha spiegato anni fa l’allora prefetto della Biblioteca Ambrosiana, monsignor Gianfranco Ravasi, oggi cardinale e presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura. “In questa luce, dobbiamo considerare la montagna un segno, un simbolo del trascendente, di ciò che supera la quotidianità e l’oscurità della valle”, aggiunse Ravasi, sottolineando come l’ascesa delle vette, per il credente, rappresenti “la scoperta, attraverso il silenzio, attraverso la contemplazione della natura, di una parola e di una presenza che ci supera: è la parola e la presenza di Dio. La montagna è quasi il luogo ideale per poterla percepire”.
Un beato che amava alla follia la montagna è stato Pier Giorgio Frassati (1901-1925). “Vorrei passare intere giornate sui monti a contemplare in quell’aria pura la grandezza del Creatore”, diceva Frassati, le cui immagini più note sono proprio le fotografie delle sue escursioni ad alta quota. Iscritto a numerose associazioni alpinistiche, Frassati era un rocciatore provetto e scalò anche vette molto impegnative come la Grivola, nel Gran Paradiso, e l’Uia di Ciaramella, nelle Alpi Graie. “Ogni giorno che passa – affermava il beato – mi innamoro sempre più della montagna; il suo fascino mi attira. Io capisco questo desiderio di sole, di salire su, in alto, di andare a trovare Dio in vetta. Oh, come le opere di Dio sono grandi e meravigliose! Vorrei passare intere giornate sui monti a contemplare in quell’aria pura la Grandezza del Creatore. Qui trascorro ore di vera beatitudine contemplando i magnifici ghiacciai”. A Frassati sono stati dedicati numerosi sentieri montani in varie zone d’Italia, persino in luoghi da lui mai battuti come nell’appennino cortonese. Il motto del beato torinese era infatti “verso l’alto”, a richiamare la sua continua tensione a scalare le vette: quelle materiali e quelle dello spirito.