Maria Valtorta (Caserta, 14 marzo 1897 – Viareggio, 12 ottobre 1961), mistica cattolica italiana, disse di aver avuto visioni riguardo alla vita di Gesù e Maria e ai Vangeli e di aver poi trascritto tutto ciò che Gesù le aveva detto e mostrato, in un progetto per far meglio conoscere Dio alle anime. Anche se non sono stati riconosciuti ufficialmente, questi scritti vengono tutt’ora studiati.
Qui riportiamo un estratto che descrive la nascita di Maria Santissima secondo “L’Evangelo come mi è stato rivelato” della Valtorta.
Nascita di Maria. La sua verginità nell’eterno pensiero del Padre. Ecco come la mistica Maria Valtorta descrive secondo la visione ricevuta, la nascita di Maria Santissima:
26 agosto 1944. Vedo Anna uscire nell’orto-giardino. Si appoggia al braccio di una parente certo, perché le somiglia. E’ molto grossa e pare affaticata forse anche dall’afa, proprio simile a questa che accascia me. Per quanto l’orto sia ombroso, pure l’aria vi è rovente, pesante. Un’aria da tagliarsi come una pasta molle e calda, tanto è densa, sotto uno spietato cielo di un azzurro che la polvere sospesa negli spazi fa lievemente fosco. Da molto deve esservi siccità, perché la terra, dove non e irrigata, è letteralmente ridotta a polvere finissima e quasi bianca. Di un bianco lievemente tendente ad un rosa sporco, mentre è marrone rosso scuro, per esser bagnata, al piede delle piante o lungo le brevi aiuole dove crescono filari di ortaggi, e intorno ai rosai, ai gelsomini, ad altri fiori e fioretti, che sono specie sul davanti e lungo una bella pergola che taglia per metà il brolo sino al principio dei campi, ormai spogli di biade. Anche l’erba del prato, che segna la fine della proprietà, è arsiccia e rada. Solo ai margini di esso, là dove è una siepe di biancospino selvatico, già tutto tempestato dei rubini dei piccoli frutti, l’erba è più verde e folta, e là, in cerca di pastura e d’ombra, sono delle pecorelle con un piccolo mandriano. Gioacchino è intorno ai filari e agli ulivi. Ha con lui due uomini che l’aiutano. Ma, per quanto anziano, è svelto e lavora con gusto. Stanno aprendo delle piccole chiudende ai limiti di un campo, per dare acqua alle piante assetate; e l’acqua si fa strada gorgogliando fra l’erba e la terra arsa, e si stende in anelli, che per un momento paiono di un cristallo giallastro e poi sono solo anelli scuri di terra umida, intorno ai tralci e agli ulivi stracarichi. Lentamente Anna, per la pergola ombrosa, sotto la quale api d’oro ronzano, ghiotte dello zucchero di acini biondi, va verso Gioacchino, che quando la vede le si affretta incontro. «Fin qui sei giunta?». «La casa è calda come un forno ». E tu ne soffri ». «L’unica sofferenza di questa mia ultima ora di gravida. La sofferenza di tutti, uomini e bestie. Non ti accaldare troppo, Gioacchino ». «L’acqua, sperata da tanto e che da tre giorni pareva proprio vicina, non è ancora venuta, e la campagna brucia. Buon per noi che vi è la sorgente vicina ed è così ricca d’acque. Ho aperto i canali. Poco sollievo per le piante, che hanno le foglie vizze e coperte di polvere. Ma quel tanto da tenerle in vita. Se piovesse!… ». Gioacchino, con l’ansia di tutti gli agricoltori, scruta il cielo, mentre Anna, stanca, si sventola con un ventaglio che pare fatto con una foglia secca di palma, intrecciata con fili multicolori che la tengono rigida. La parente dice: «Là, oltre il grande Hermon, sorgono nubi veloci. Vento di settentrione. Rinfrescherà e forse darà acqua». «E’ tre giorni che si leva e poi cade col sorger della luna. Farà così ancora ». Gioacchino è sconfortato. «Torniamo in casa. Anche qui non si respira, e poi penso che sia bene tornare…» dice Anna, che sembra ancor più olivastra per un pallore che le è venuto sul viso. « Soffri? ». «No. Ma sento quella gran pace che ho sentito nel Tempio quando mi fu fatta grazia, e che ho sentito ancora quando seppi d’esser madre. E’ come un’estasi. Un dolce sonno del corpo, mentre lo spirito giubila e si placa in una pace senza paragone umano. Ti ho amato, Gioacchino, e quando sono entrata nella tua casa e mi sono detta: ” Sono sposa di un giusto “, ho avuto pace, e così tutte le volte che il tuo provvido amore aveva cure per la tua Anna. Ma questa pace è diversa. Vedi, io credo che è una pace come quella che dovette invadere, come olio che si spande e molce, lo spirito di Giacobbe, nostro padre, dopo il suo sogno d’angeli; e, meglio ancora, simile alla pace gioiosa dei Tobia dopo che Raffaele si manifestò loro. Se mi vi sprofondo, nel gustarla essa sempre più cresce. E’ come io salissi per gli spazi azzurri del cielo… e, non so perché, da quando io ho in me questa gioia pacifica, io ho un cantico in cuore, quello del vecchio Tobia. Mi pare sia stato scritto per quest’ora… per questa gioia… per la terra d’Israele che la riceve… per Gerusalemme peccatrice e ora perdonata… ma… – ma non ridete dei deliri di una madre… – ma quando dico: “Ringrazia il Signore per i tuoi beni e benedici il Dio dei secoli, affinché riedifichi in te il suo Tabernacolo “, io penso che colui che riedificherà nella Gerusalemme il Tabernacolo del Dio vero sarà questo che sta per nascere…, e penso ancora che non più della Città santa, ma della mia creatura sia profetizzata la sorte quando il cantico dice: “Tu brillerai di luce splendida, tutti i popoli della terra a te si prostreranno, le nazioni verranno a te portando doni, adoreranno in te il Signore e terranno come santa la tua terra, perché dentro di te invocheranno il Grande Nome. Tu sarai felice nei tuoi figli, perché tutti saranno benedetti e si riuniranno presso il Signore. Beati quelli che ti amano e gioiscono della tua pace!… “; e la prima a gioirne sono io, la sua madre beata… Anna si trascolora e si accende come cosa portata da luce lunare a gran fuoco e viceversa, nel dire queste parole. Delle dolci lacrime le scorrono sulle gote, né se ne avvede, e sorride alla sua gioia. E intanto va verso casa fra lo sposo e la parente, che ascoltano e tacciono commossi. Si affrettano perché le nubi, spinte da un vento alto, galoppano e crescono per il cielo, e la pianura si fa scura e abbrividisce per un avviso di temporale. Quando giungono alla soglia di casa, un primo lampo livido solca il cielo e il rumore del primo tuono pare il rullare di un’enorme grancassa che si mesca all’arpeggio delle prime gocce sulle foglie arse. Entrano tutti e Anna si ritira, mentre Gioacchino, raggiunto dai garzoni, parla, sulla porta, di questa tanto attesa acqua, che è benedizione per la terra sitibonda. Ma la gioia si muta in timore, perché viene un temporale violentissimo con fulmini e nubi cariche di grandine. «Se la nube rompe, l’uva e le ulive saranno frante come da mola. Miseri noi! ». Un’altra ansia ha poi Gioacchino, per la sposa a cui è giunta l’ora di dare alla luce il figlio. La parente lo rassicura che Anna non soffre affatto. Ma egli è in orgasmo, e ogni volta che la parente o altre donne, fra cui la mamma di Alfeo, escono dalla stanza di Anna per poi tornarvi con acqua calda e bacili e lini asciugati alla fiamma, che splende ilare sul focolare centrale in un’ampia cucina, va e chiede, e non si placa per le loro rassicurazioni. Anche l’assenza di gridi da parte di Anna lo preoccupa. Dice: «Io sono uomo e non ho mai visto partorire. Ma mi ricordo d’aver sentito dire che l’assenza di doglie è fatale… Viene la sera, anticipata dalla furia temporalesca che è violentissima. Acqua torrenziale, vento, fulmini, vi è di tutto, meno la grandine che è andata ad abbattersi altrove. Uno dei garzoni nota questa violenza e dice: «Sembra che Satana sia uscito coi suoi demoni dalla Geenna. Guarda che nubi nere! Senti che fiato di zolfo è nell’aria, e fischi e sibili e voci di lamento e maledizione. Se è lui, è furente questa sera! ». L’altro garzone ride e dice: «Gli sarà sfuggita una grande preda, oppure Michele lo ha percosso con nuova folgore di Dio, e lui ne ha corna e coda mozze e arse ». Passa di corsa una donna e grida: «Gioacchino! Sta per nascere! E tutto fu svelto e felice! » e scompare con un’ anforetta fra le mani. Il temporale cade di colpo, dopo un ultimo fulmine così violento che sbatte contro le pareti i tre uomini; e sul davanti della casa, nel suolo dell’orto, resta a suo ricordo una buca nera e fumante. E mentre un vagito, che pare il lamento di una tortorina che per la prima volta non pigoli più ma tubi, viene da oltre la porta di Anna, un enorme arcobaleno stende la sua fascia a semicerchio su tutta l’ampiezza del cielo. Sorge, o per lo meno pare sorgere, dalla cima dell’Hermon che, baciata da una lama di sole, pare di alabastro di un bianco rosa delicatissimo; si alza fino al più terso cielo di settembre e, valicando per spazi detersi da ogni impurità, sorvola le colline di Galilea e la piana che appare, fra due alberi di fico, che è a sud, e poi ancora un altro monte; e sembra posare la sua punta estrema all’estremo orizzonte, là dove un’aspra catena di monti chiude ogni altra veduta. Che cosa mai vista! ». «Guardate, guardate! ». Pare che leghi in un cerchio tutta la terra di Israele, e già, ma guardate, già vi è una stella mentre ancor non è scomparso il sole. Che stella! Brilla come un enorme diamante!…». E la luna, là, è tutta piena, mentre ancor mancano tre giorni al suo esserlo. Ma guardate come splende! ». Le donne sopraggiungono festanti con un batuffolino roseo fra candide tele. E’ Maria, la Mamma! Una Maria piccolina che potrebbe dormire fra il cerchio di braccia di un fanciullo, una Maria lunga al massimo quanto un braccio, una testolina di avorio tinto di rosa tenue e dalle labbruzze di carminio, che non piangono già più ma fanno l’istintivo atto di succhiare, così piccine che non si sa come faranno a prendere un capezzolo, un nasetto minuto fra due gotine tonde e, quando stuzzicandola le fanno aprire gli occhietti, due pezzettini di cielo, due puntini innocenti e azzurri che guardano, e non vedono, fra ciglia sottili e di un biondo quasi roseo, tanto è biondo. Anche i capellucci sulla testolina tonda hanno la velatura roseo-bionda di certi mieli che sono quasi bianchi. Per orecchie, due conchigliette rosee e trasparenti, perfette. E per manine… cosa sono quelle due cosine che annaspano per l’aria e poi vanno alla bocca? Chiuse come ora, due bocci di rosa borraccina che abbiano fenduto il verde dei sepali e sporgano la loro seta di rosa tenue; aperte come ora, due gioiellini d’avorio appena rosato, di alabastro appena rosato, con cinque pallide granate per unghiette. Come faranno quelle manine ad asciugare tanto pianto? E i piedini? Dove sono? Per ora sono solo uno zampettio nascosto fra i lini. Ma ecco che la parente si siede e la scopre… Oh! i piedini! Lunghi un quattro centimetri, hanno per pianta una conchiglia corallata, per dorso una conchiglia di neve venata d’azzurro, per ditine dei capolavori di scultura lillipuziana, anche loro coronate di piccole scaglie di granata pallida. Ma come si troveranno sandaletti, quando quei piedini di bambola faranno i primi passi, tanto piccini da poter stare su quei piedini? E come faranno quei piedini a fare tanto aspro cammino e sorreggere tanto dolore sotto una croce? Ma ora questo non si sa, e si ride e sorride del suo annaspare e sgambettare, delle belle gambette tornite, delle cosce minute che fanno fossette e braccialetti tanto sono grassottelle, della pancina, una coppa capovolta, del piccolo torace perfetto sotto la cui seta candida si vede il moto del respiro e certo si ode, se, come fa il padre felice ora, vi si appoggia la bocca ad un bacio, battere un cuoricino… Un cuoricino che è il più bello che ha la terra nei secoli dei secoli, l’unico cuore immacolato di uomo. E la schiena? Ecco che la rivoltano, e si vede la falcatura delle reni e poi le spalle grassottelle e la nuca rosea così forte che, ecco, la testolina si alza sull’arco delle vertebre minute, e pare il capino di un uccello che scruti intorno il mondo nuovo che vede, e ha un gridino di protesta per esser così mostrata, Lei, la Pura e Casta, agli occhi di tanti, Lei che uomo non vedrà mai più nuda, la Tutta Vergine, la Santa ed Immacolata. Coprite, coprite questo Boccio di giglio che non sarà mai aperto sulla terra e che darà, più bello ancor di Lei, il suo Fiore, pur restando boccio. Solo nei Cieli il Giglio del Trino Signore aprirà tutti i suoi petali. Perché lassù non vi è polvere di colpa che possa involontariamente profanare quel candore. Perché lassù vi è da accogliere, alla vista di tutto l’Empireo, il Trino Iddio che ora, fra pochi anni, celato in un cuore senza macchia, sarà in Lei: Padre, Figlio, Sposo. Eccola di nuovo fra i lini e fra le braccia del padre terreno, cui Ella somiglia. Non ora. Ora è un abbozzo d’uomo. Io dico che gli somiglia fatta donna. Della madre non ha nulla. Del padre il colore della pelle e degli occhi, e certo anche dei capelli che, se ora sono bianchi, in gioventù erano certo biondi come lo dicono le sopracciglia; del padre le fattezze, rese più perfette e gentili per esser Lei donna, e quella Donna; del padre il sorriso e lo sguardo e il modo di muoversi e la statura. Pensando a Gesù, come lo vedo, trovo che Anna ha dato la sua statura al Nipote e il colore più avorio carico della pelle. Mentre Maria non ha quell’imponenza di Anna, una palma alta e flessuosa, ma la gentilezza del padre. Anche le donne parlano del temporale e del prodigio della luna, della stella, dell’immenso arcobaleno, mentre con Gioacchino entrano dalla madre felice e le rendono la creaturina. Anna sorride ad un suo pensiero: «E’ la Stella» dice. «Il suo segno è nel cielo. Maria, arco di pace! Maria, stella mia! Maria, pura luna! Maria, perla nostra! ». Maria la chiami? Si. Maria, stella e perla e luce e pace… «Ma vuol dire anche amarezza… Non temi portarle sventura? ». «Dio è con Lei. E’ sua da prima che fosse. Egli la condurrà per le sue vie ed ogni amarezza si muterà in paradisiaco miele. Or sii della tua mamma… ancora per un poco, prima di esser tutta di Dio… E la visione ha termine sul primo sonno di Anna madre e di Maria infante. 27 agosto 1944