La “provocazione” del Papa in Mongolia

Papa Francesco in Mongolia
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Quello in corso in questi giorni è uno dei viaggi pontifici più atipici e indecifrabili non solo per papa Francesco ma per l’intera storia della Chiesa post-conciliare. In Mongolia vivono poco più di 1300 battezzati cattolici: in sostanza l’equivalente di una parrocchia di provincia e nemmeno di grandi dimensioni. Le parole pronunciate dal Santo Padre durante il volo d’andata sono significative: “Andare in Mongolia è andare presso un popolo piccolo in una terra grande. La Mongolia sembra non finire e gli abitanti sono pochi, un popolo piccolo (poco numeroso) di grande cultura. Credo che ci farà bene capire questo silenzio, così lungo, così grande. Ci aiuterà a capire cosa significa ma non intellettualmente, capirlo con i sensi”.

Siamo di fronte ad un viaggio che pare davvero il paradigma di un intero pontificato ormai decennale: una periferia geografica ed esistenziale, una terra di evangelizzazione primaria, forse una delle poche rimaste, in questo senso. Il Papa si reca in un Paese dove ancora non esiste una vera e propria diocesi, né un vescovo ma un prefetto apostolico, peraltro, non di nazionalità mongola ma italiana: il cardinale Giorgio Marengo, 49 anni, è il più giovane porporato vivente e anche questo è un dato significativo. Il futuro della Chiesa è sempre più spinto al di fuori dei propri confini materiali e spirituali. Marengo sarà uno dei cardinali che eleggeranno il prossimo Papa: in considerazione dell’esiguità del suo gregge, potremmo quasi dire, a un primo approccio, che sarebbe come se entrasse in conclave l’equivalente di un viceparroco di una qualsiasi delle meno affollate e prestigiose comunità della Diocesi di Roma.

È prevedibile che il Pontefice affronterà i consueti temi del dialogo interreligioso, della pace, dell’ecologia. Al di là di questi argomenti, comunque, c’è un aspetto simbolico di questo viaggio che forse non tutti hanno colto: la Mongolia confina con due soli Stati che sono la Russia e la Cina. A queste due potenze mondiali – la prima storicamente non cattolica, la seconda nemmeno cristiana – il Santo Padre sta dedicando un’attenzione senza precedenti. Qualunque visione si possa avere di questi due grandi Paesi, è ormai indiscutibile che l’approccio di Francesco nei loro confronti è molto diverso rispetto a quello di buona parte dell’Occidente. Bergoglio sa che con i russi e con i cinesi è necessario parlarci, cercando quel minimo in comune, fosse anche pari a poco più che zero.

È anche per questo che il mondo inizia a non capire più la logica di questo Papa. Un’incomprensione che si registra anche in quel mondo progressista e open minded che per un decennio lo ha acclamato come “uno di loro”. Lo dimostrano l’editoriale “perplesso” su La Stampa di Domenico Agasso jr, uno dei vaticanisti più entusiasti e “agiografici” intorno alla figura del pontefice argentino. Del resto, il progressivo disallineamento rispetto al Papa di certi circoli politici e intellettuali italiani e occidentali va di pari passo con lo sconcerto di gran parte dei notabili ucraini che non sposano affatto la linea bergogliana della distensione con Mosca. A partire dal portavoce del ministero degli esteri ucraino Oleg Nikolenko, che ha bollato le parole del Papa ai giovani russi come “propaganda imperialista”, mentre Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente ucraino, ha definito lo stesso discorso “distruttivo dell’umanesimo contemporaneo”. Persino l’arcivescovo maggiore della Chiesa greco-cattolica ucraina Sviatoslav Shevchuk, storico amico di Bergoglio fin da quando questi era arcivescovo di Buenos Aires, ha espresso “grande dolore e preoccupazione”, persino “grande delusione” per le parole del Papa.

Se Kiev piange, Mosca quantomeno accenna un timido sorriso. C’è chi, come Leonid Sevastyanov, presidente dell’Unione Mondiale dei Vecchi Credenti, alla vigilia della partenza per la Mongolia aveva avanzato la possibilità di un incontro a sorpresa tra Francesco e il patriarca Kirill durante un ipotetico scalo a Mosca, all’andata o al ritorno dalla visita pastorale in corso. Anche l’incontro tra il cardinale Matteo Maria Zuppi e il patriarca Kirill, avvenuto lo scorso 29 giugno nella capitale russa, è risultato molto costruttivo per entrambe le parti, nell’agognata direzione della pace.

C’è una profezia mariana espressa nelle apparizioni di Garabandal (non riconosciute dalla Chiesa) che dice: “Dopo la visita del Papa a Mosca scoppieranno le ostilità in diverse parti d’Europa”. Tale visita, verosimilmente, non avverrà in tempi brevi e tantomeno a ridosso del viaggio in Mongolia. È anche vero, tuttavia, che i tempi attuali ben descrivono lo spirito di quella profezia (vera o falsa che sia). E così come la visita del Papa in un Paese con appena 1300 cattolici, incastonato tra due nazioni contrapposte all’Occidente, può avere il sapore di una “provocazione”, lo è anche la ricerca del dialogo e dell’amicizia con l’estraneo e il nemico. L’immagine del “costruire ponti”, così spesso ricorrente nella predicazione di papa Francesco, è stata a vario titolo apprezzata e applaudita da molti, per lungo tempo. Oggi, quelle stesse persone iniziano a usare due pesi e due misure. Si può amare o non amare questo pontefice ma quando la Chiesa inizia a infastidire il pensiero dominante, è segno che si sta muovendo nella direzione giusta.