“L’Epifania tutte le feste porta via”. “La Befana vien di notte, con le scarpe tutte rotte…”. Fin da #bambini siamo sempre stati allietati con queste amene filastrocche e detti popolari sull’Epifania. La solennità che oggi festeggiamo, è sempre stata ammantata di un tocco di beffarda ironia: vuoi perché si pone a chiusura del ciclo natalizio, con tutti i malumori che ne conseguono (dal rientro al lavoro alle geremiadi per i chili presi nelle due settimane precedenti…), vuoi per la pittoresca allegoria della Befana, secondo la tradizione, portatrice – sì – di doni ma non dello stesso prestigio di Babbo Natale, anzi, talora anche punitivi…
I liturgisti ci perdoneranno se ci permettiamo di rovesciare il popolare adagio, affermando: l’Epifania tutte le feste fa iniziare. Ebbene sì, questo momento dell’anno meriterebbe una considerazione maggiore rispetto a quella che il cristiano medio normalmente le attribuisce. Con l’Epifania, ben lungi dal concludersi, la festa di Gesù Cristo tra noi entra davvero nel vivo. Nell’arco di meno di due settimane, attorno al Bambino di Betlemme, vediamo in qualche modo un anticipo di quello che è poi avvenuto con Gesù adulto e, nel corso della storia, con il Vangelo e con la Chiesa: sono sempre gli umili ad accogliere e a riconoscere per primi il Messia, solo in seguito arrivano – e nemmeno tutti tra loro – anche i potenti, gli eruditi e gli intellettuali.
Prendiamo in considerazione la figura dei Re Magi: essi incarnano tanto le élite della loro epoca – erano scienziati e astronomi – quanto l’appartenenza ad una cultura straniera, non giudaica. Eppure si fidarono, lasciandosi guidare dalla cometa ed affrontando i pericoli di un lunghissimo viaggio e le insidie del re Erode. I Magi misero in discussione tutti i loro privilegi e tutte le loro certezze in nome di un Bambino nato in un luogo molto lontano, di cui non conoscevano né nome né identità, salvo che era il “Re dei Giudei”.
I Re Magi sono l’esemplificazione dell’incontro tra scienza e fede. Nella sua ultima omelia da papa regnante per la solennità dell’Epifania (6 gennaio 2013), Benedetto XVI li descrive come “uomini dotti” e “inquieti” che “non si accontentavano del loro reddito assicurato e della loro posizione sociale forse considerevole” ma “erano alla ricerca della realtà più grande”. Non si accontentarono nemmeno di “sapere se Dio esista, dove e come egli sia” ma vollero incontrarlo, conoscere il Suo volto e, soprattutto, adorarlo (cfr. Mt 2,10). E lo hanno conosciuto e adorato nelle fragili e tenere sembianze di un bambino. I doni che i Magi portano al nuovo Nato – oro, incenso e mirra – sono un segno di sottomissione e riverenza nei confronti dell’unico vero Re, di fronte al quale, il potere e la sapienza umani sono piccolissima cosa.
I Re Magi rivivono nell’umanità di oggi, ogniqualvolta un uomo di scienza riconosce i limiti del proprio intelletto e, per dirla con Blaise Pascal, comprende che “il cuore ha le sue ragioni, che le ragioni non conosce”. Anche l’Amleto shakespeariano proclamava una verità simile: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”. L’uomo che si inchina di fronte allo sconfinato mistero dell’universo e che, al tempo stesso, non cessa di indagarlo e non si ripiega certo in un appagamento a metà tra l’autoreferenziale e il nichilista.
La parola Epifania – dal greco ἐπιφάνεια – indica “manifestazione”, “apparizione”, “venuta”, “presenza divina”. È la prima volta in tutta la Scrittura che Dio si svela per quello che è. Una rivelazione che cambia le nostre vite.
Nella sua narrativa (Gente di Dublino e Ulisse in particolare), James Joyce descrive le tante “epifanie” terrene vissute dai suoi personaggi: eventi presenti, parole o memorie che riaffiorano e illuminano di nuova luce una realtà fino a un’istante prima routinaria e intorpidita. Come il protagonista di Arabia, un adolescente che non si dà pace per essere arrivato tardi alla fiera – ormai in chiusura – dove avrebbe voluto acquistare un pensiero per la fanciulla di cui si è invaghito; o James Duffy, solitario e scontroso impiegato che, inaspettatamente, stringe amicizia con una madre di famiglia durante un concerto all’Opera, poi, dopo qualche tempo, oppresso dai sensi di colpa, decide di troncare qualunque legame con lei. Quattro anni dopo, da un pezzo di cronaca su un quotidiano, Duffy scopre che la donna, vittima dell’alcolismo, è tragicamente morta travolta da un treno; e, sentendosi responsabile di quel suicidio, scopre, nel bene o nel male, di aver rifiutato l’affetto di una persona, di non essere fondamentalmente capace di amare e di essersi quindi autocondannato a un’eterna solitudine.
Mentre, però, nella narrativa joyciana, mancando una dimensione trascendente, le “epifanie” lasciano spesso l’amaro in bocca e costellano le delusioni della vita, ben altra valenza assume l’Epifania del Signore, che ci insegna la “rivelazione” più grande e gioiosa: l’amore non è un’illusione ma è possibile; inoltre non siamo mai soli, perché Dio è con noi e non potrà spaventarci perché è umano, pienamente umano.