Messe interrotte: a Report interessa qualcosa?

Il tempismo è stato davvero sospetto. In un momento particolarmente delicato per il mondo e per la Chiesa, proprio quando tra le varie ‘fazioni’ cattoliche iniziavano ad avvertirsi segnali di distensione, come un fulmine a ciel sereno, lunedì sera è arrivato il dossier di Report dall’eloquente titolo Dio, patria e famiglia SPA. I contenuti? Le cospirazioni dell’ala ultraconservatrice contro papa Francesco e i legami dei medesimi gruppi con varie formazioni politiche di estrema destra e/o sovraniste. Se, per certi versi, si tratta del segreto di pulcinella, ovvero di avvenimenti veri o presunti già abbastanza noti alla stampa specializzata, il fatto che, a un certo punto, questo reportage abbia trovato spazio su un noto programma d’inchiesta della prima rete della TV pubblica italiana, lascia molto pensare.

Non ci pronunceremo sui legami politici dei gruppi religiosi menzionati da Report e diamo per assodato che, intorno al Vaticano e nella Chiesa, vi sia chi fa la fronda al pontificato di Bergoglio e – nemmeno troppo sottovoce – ne contesti molte, se non la totalità, delle sue riforme e innovazioni. Colpisce, però che la trasmissione Rai abbia diffuso un servizio particolarmente divisivo, proprio in un momento in cui le polemiche dei conservatori si erano fatte meno incandescenti rispetto al recente passato: si pensi agli asprissimi confronti a seguito della pubblicazione dell’Amoris laetitia, al caso Viganò o alla diatriba sulle Pachamama, durante il Sinodo sull’Amazzonia. Di più: a seguito della veglia in piazza San Pietro dello scorso 27 marzo, con il Papa solitario sotto la pioggia a invocare la fine della pandemia, si era miracolosamente ricreato un clima di unità e di preghiera intorno al successore di Pietro, al di là delle opinioni personali dei singoli sul pontificato. Anche l’omelia a Santa Marta del 17 aprile aveva contribuito a rasserenare gli animi di quanti avevano tacciato Bergoglio di una certa tiepidezza nei confronti della ripresa delle messe con il popolo.

Pertanto, risulta molto significativo che Report abbia voluto mandare in onda un servizio che, ammesso e non concesso abbia veramente a cuore il vicario di Cristo in terra e l’unità della Chiesa, di fatto rispolvera vecchie ruggini, forse con l’intento di svelarle ad un pubblico laico, poco informato sulle questioni ecclesiali e, verosimilmente, senza una posizione precisa in merito. Il tutto, proprio in un momento, in cui una parte non trascurabile della comunità cattolica si interroga sulla propria libertà religiosa e sulla possibilità di tornare presto a una vita sacramentale piena. In questo passaggio così delicato, il servizio di Report ha avuto l’effetto (intenzionale o no, non sta a noi dirlo) di un’arma di distrazione di massa, rispetto a una questione che sta fortemente a cuore a parecchi cattolici. A onor del vero, Report ha anche accennato al dibattito sulla ripresa delle funzioni in pubblico ma lo ha fatto identificando tout court gli “aperturisti” con dei fanatici ultraconservatori nemici del Papa.

Il fatto che una redazione di orientamento laico, quale è quella di Report, si prodighi nella difesa del Papa, di per sé, può fare sicuramente piacere ai cattolici. Se poi le informazioni veicolate nel servizio di lunedì scorso, si riveleranno corrette e seriamente documentate, la cosa potrà forse sovvertire ulteriormente i già delicati equilibri ecclesiali ma, alla lunga, tutto concorre al bene e tutti sappiamo che è la verità che rende liberi. Se, però, il programma è stato messo in onda più con intenti politici che per perseguire un’informazione corretta e non di parte, è un altro conto: in tal caso, c’è senz’altro da dubitare che la redazione di Report abbia veramente a cuore la Chiesa e la sua unità.

Ammesso e non concesso, che Report porti avanti un’informazione imparziale e voglia laicamente tutelare la libertà religiosa e far conoscere da vicino la realtà della Chiesa, nel contesto del pontificato di Francesco, ci chiediamo se i colleghi della trasmissione Rai saranno disposti ad approfondire anche le vicende delle messe interrotte dalle forze dell’ordine nelle ultime settimane. Gli episodi noti alle cronache sono ormai almeno una decina, ma ci limitiamo a ricordare il più recente e più clamoroso: quello che ha coinvolto don Lino Viola, ottantenne parroco di San Pietro Apostolo a Soncino (CR), che si è visto entrare i carabinieri in chiesa, poco prima della consacrazione. La colpa? Aver fatto venire alla celebrazione, oltre ai ministranti e ai lettori, anche – tutti distanziati e con mascherina – sei parenti stretti di alcuni parrocchiani da poco scomparsi, per i quali aveva concordato una messa di suffragio, non avendo potuto celebrare i funerali, ai sensi del DPCM del 9 marzo scorso. “Sto dicendo Messa, non adesso”, ha gridato l’arzillo sacerdote, riprendendo poi la celebrazione. I carabinieri, però, hanno cacciato fuori tutti i presenti, al di fuori di un accolito, mentre il “don” terminava la messa, non prima di essere nuovamente interrotto, stavolta dalla perpetua, che gli porgeva il telefono con il sindaco in linea a scongiuragli di desistere. A conclusione della messa, è stata inflitta una multa di 680 euro al parroco e di 280 euro a ciascuno dei malcapitati parrocchiani. Una vicenda che ha suscitato il commento sdegnato persino di un misurato e prudentissimo uomo di Curia, come il cardinale Angelo Becciu, uno dei fedelissimi di papa Francesco. In un tweet, il prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi ha dichiarato: “Deve essere difeso il principio che a nessuna autorità è consentito di interrompere la messa. Se il celebrante è reo di qualche infrazione sia ripreso dopo, non durante!”.

Solo un paio di considerazioni in merito alla disavventura (o, se si preferisce, imprudenza) di don Lino. La prima è di carattere etico-giuridico: l’interruzione di una funzione religiosa è un reato penale sanzionabile con reclusione fino ai tre anni (art. 405 C.P.). Inoltre, ai sensi del Concordato tra Italia e Santa Sede del 1984, “la forza pubblica non potrà entrare per l’esercizio delle sue funzioni negli edifici aperti al culto, senza averne dato previo avviso all’autorità ecclesiastica” (art. 5, c. 2). Quale norma dovrebbe prevalere, il DPCM dello scorso 9 marzo o il Codice Penale? Ma soprattutto: alla luce di tali principi, per quale motivo i carabinieri non hanno atteso la conclusione della messa, prima di comminare le sanzioni? Con la seconda considerazione voliamo più alto: se anche don Lino avesse infranto la legge – ammesso e non concesso che si tratti di una legge oggettivamente giusta – come sacerdote, in coscienza, dovrà anteporre la legge dell’uomo o la legge di Dio? I parenti di quei defunti che don Lino ha accolto affettuosamente in chiesa, meritavano davvero di essere trattati con quella durezza? Conta solo la salute del fisico o anche quella dell’anima? Il diritto alla salute deve sempre prevalere sulla libertà religiosa? A riguardo, sarebbe opportuno aprire un dibattito serio (di cui finora non si è vista traccia) e sarebbe bello se anche i colleghi di Report volessero darvi il loro contributo.