La messa non è un diritto, però…

Il prolungamento della sospensione delle messe con il popolo sta facendo salire l’amarezza e l’inquietudine tra i fedeli. L’insostenibilità della situazione ha stimolato l’intervento di papa Francesco che, nella sua omelia di ieri mattina alla Casa Santa Marta, si è espresso molto chiaramente: “Una familiarità senza comunità, una familiarità senza il pane, una familiarità senza la Chiesa, senza il popolo, senza i sacramenti, è pericolosa”. E ha confidato il ‘rimprovero’ ricevuto da un “bravo vescovo”, che nei giorni scorsi, gli avrebbe detto: “Ma come mai, è così grande San Pietro, perché non mette 30 persone almeno, perché si veda gente? Non ci sarà pericolo…”. Questo momento anomalo, ha osservato il Pontefice, va vissuto per entrare in “familiarità con il Signore” ma “per uscire dal tunnel, non per rimanerci”. E ha ribadito: “Questa è la Chiesa di una situazione difficile, che il Signore lo permette, ma l’ideale della Chiesa è sempre con il popolo e con i Sacramenti. Sempre”. Ancora più nette le parole della veggente Marija Pavlovic, che, già a fine marzo, intervistata telefonicamente per Radio Maria da padre Livio, aveva manifestato la sua tristezza per una Medjugorje, dopo quasi quarant’anni, per la prima volta deserta. “Perché questa legge che vogliono chiudere le chiese? Perché non vogliono permetterci di pregare? E per questo dico: questo non è di Dio, questo è del diavolo, questo è di satana”, ha dichiarato la veggente.

Difficile dare torto a Marija: l’impedimento oggettivo ad andare in chiesa, a presenziare alla messa e, soprattutto, a ricevere il sacramento dell’eucaristia è sicuramente qualcosa che fa gioire satana e rattristare Dio. Come già abbiamo sottolineato in altre occasioni, la sospensione delle messe con il popolo e di tutte le funzioni religiose pubbliche, non solo cristiane, disposta da numerosi governi, va rispettata. Non si può, tuttavia, criminalizzare (persino tanti cattolici praticanti l’hanno fatto!) chi ritiene questa norma difficile da accettare o chi, comunque, auspica un rapido ripristino delle messe, con tutte le precauzioni possibili per evitare i contagi da Covid-19. Da un male, Dio può trarne un bene, e anche noi possiamo vivere questo tempo lontano dai sacramenti, per meditare sull’autenticità del nostro rapporto personale con Lui. Ci sono, tra l’altro, migliaia di comunità cattoliche in molte parti del mondo, dove l’eucaristia si riceve ogni due o tre mesi, per le più svariate ragioni: scarsità di sacerdoti; persecuzioni anticristiane in atto; oggettiva difficoltà a raggiungere la parrocchia più vicina (si pensi alle comunità dell’Amazzonia, al centro dell’ultimo Sinodo).

Gli impedimenti esterni, tuttavia, non potranno mai giustificare alcun atteggiamento passivo, che si trinceri dietro un generico e vago richiamo all’“obbedienza”, né da parte dei laici, né da parte del clero, che, oltretutto, all’eucaristia quotidiana non deve rinunciare. Ovunque si possa, ovunque si apra uno spiraglio, le messe in pubblico si devono celebrare, e i sacramenti si devono amministrare. Anche per queste ragioni, sono da accogliere con il massimo favore, le proposte della Conferenza Episcopale Italiana per allargare le maglie della “quarantena religiosa”. L’obiettivo è riprendere gradualmente la vita comunitaria nelle parrocchie a partire dal 4 maggio prossimo, data d’inizio della “fase due” prospettata dal governo Conte per la riapertura di una serie di attività non a rischio assembramento. Sebbene un ritorno brusco alla vita pre-pandemia sia ritenuto “irresponsabile”, i vescovi italiani, per bocca del portavoce della CEI, don Ivan Maffeis, hanno chiesto che “venga data una risposta alle attese di tanta gente”. In questi giorni, le autorità ecclesiali e governative sono a stretto contatto “per definire un percorso meno condizionato all’accesso e alle celebrazioni liturgiche per i fedeli”, ha spiegato don Maffeis. In particolare, si chiede di poter tornare almeno a “celebrare i funerali, magari solo con i familiari stretti”, perché “non possiamo non essere vicino a chi soffre. Troppe persone – ha concluso il portavoce della CEI – stanno soffrendo perché la morte di un caro oggi è come un sequestro di persona, certo motivato, ma dobbiamo farci carico di questo dolore dal punto di vista umano oltre che cristiano”.

Quello della CEI è un primo passo importante, tuttavia, bisognerà dargli continuità. È importante che i laici, mostrandosi fortemente costruttivi e collaborativi, facciano proposte ai propri pastori. L’idea di aumentare il numero delle messe festive per diradare gli assembramenti durante le celebrazioni, ad esempio, andrebbe messa al vaglio, quantomeno nelle parrocchie con un certo numero di sacerdoti. Con l’avanzare della bella stagione, poi, perché non celebrare messe all’aperto? La distanza di sicurezza sarebbe facilmente rispettabile nella maggior parte delle parrocchie dotate di un ampio oratorio o campo sportivo. Nella peggiore delle ipotesi si potrebbe anche stabilire dei turni per i parrocchiani, in base all’ordine alfabetico o per fasce d’età: una messa ogni due settimane è pur sempre meglio che nessuna messa! Indubbiamente una parrocchia, attirando un migliaio di persone una volta alla settimana, crea ben meno problemi igienici rispetto a un negozio di alimentari, che mille persone le assorbe tutti i giorni, anche in queste settimane di quarantena. Non pretendiamo che queste proposte siano accolte senza se e senza ma, ma c’è da augurarsi che siano almeno discusse.

L’assenza di celebrazioni eucaristiche e di vita comunitaria non deve produrre assuefazione, né rassegnazione. Se è vero che non siamo ai tempi di Diocleziano, con i cristiani nelle catacombe o sbranati dai leoni al Colosseo, è anche vero che l’erba cattiva anticlericale non muore mai e che il potere tende a non lusingare mai troppo i seguaci di Gesù, tranne quando si tratta di strumentalizzarli ai propri comodi. Non stupiamoci, quindi, se con la lodevole scusa di affrontare un’emergenza sanitaria, qualcuno, per malizia o per ottusità, possa arrivare ad opprimere un diritto fondamentale come la libertà religiosa. Quindi, di fronte a una testimonianza di fede troppo tiepida, il potere avrà ancora più facilità nel soffocarne la fiamma.

Non si tratta di rivendicare “sindacalmente” alcun diritto alla messa ma piuttosto di manifestare liberamente l’amore per Dio, così come lo si esprime per una persona che si ama. Se proprio dovessero perseguitarci, il martirio andrà accolto come la più radicale testimonianza della fede. In condizioni di libertà religiosa – come ci auguriamo sia tuttora – però, non sono opportuni né il vittimismo gratuito, né la sterile passività. Non si tratta di affermare alcun diritto ma solo di permettere a Gesù di camminare nella vita di chiunque, così come ha camminato nella nostra vita: sarebbe l’atto di generosità più grande, con tutto il rispetto per chi, in questi giorni, ritiene che la più alta forma di amore per il prossimo sia il puro e semplice “rimanete a casa”…