L’arte blasfema non è un fenomeno nato ieri. I nemici della Chiesa hanno spesso giocato su un concetto di bellezza particolarmente equivocabile o sul puro gusto per la provocazione. L’acquiescenza della Chiesa a tali provocazioni, tuttavia, è un fatto recente con cui buona parte dei fedeli devono fare i conti. Non era mai successo, ad esempio, che un vescovo arrivasse a difendere una mostra dai contenuti palesemente osceni, aventi ad oggetto artistico nientemeno che Gesù e la Vergine Maria.
Eppure, qualcosa del genere è accaduto di recente con l’esposizione Gratia plena, attualmente di scena al museo diocesano di Carpi, con immagini realizzate dall’artista Andrea Saltini, che mescolano in modo esplicito sacralità e nudità. Lo sconcerto della gente comune è stato palpabile e molto diffuso, come testimoniano anche le petizioni online di Pro Italia Cristiana e Pro Vita & Famiglia, in cui si chiede la rimozione della mostra dai locali diocesani. A riguardo, non si è registrata alcuna presa di distanza da parte del vescovo di Carpi, monsignor Erio Castellucci. In compenso il vicario episcopale della diocesi emiliana don Carlo Bellini ha apertamente preso le difese dell’iniziativa, sottolineando che “l’arte di Saltini non è devozionale” e che, comunque, davanti alle sue opere “si può meditare”. Non è tutto: il vicario episcopale di Carpi giudica “irrispettosi del percorso compiuto soprattutto dall’artista e anche dai promotori” i “pregiudizi” di chi ritiene “blasfeme o dissacranti” le immagini della mostra allestita al Museo Diocesano.
Se da un lato è sconcertante che possano essere veicolati contenuti tanti provocatori, ancor più inquietante è che tali contenuti possano essere avallati dal clero e dalle diocesi. Entrano così in collisione due concetti di arte sacra, assolutamente inconciliabili. Il primo è legato a una bellezza oggettiva, il cui punto di vista privilegiato è quello di Dio, che plasma ogni cosa a sua immagine e somiglianza e in cui l’artista più credibile è colui meglio riesce nella rappresentazione di quella scintilla divina. Il secondo concetto è quello espresso dai vertici della diocesi di Carpi, per cui i concetti di bellezza e di spiritualità sono soggettivi e relativi, al punto che molti prelati cadono in una sorta di “sindrome di Stoccolma”, per cui, in modo paradossalmente acritico e dogmatico, ogni proposta a sfondo anche solo vagamente cristiano che arrivi da persone intrise di una spiritualità ambigua e incerta vanno necessariamente accolte come un percorso di fede comunque rispettabile. Un esempio analogo a quello di Carpi (con tutti i dovuti distinguo): le parrocchie progettate dalle archistar contemporanee, opere particolarmente fredde e unanimemente percepite come prive di qualunque afflato divino o spirituale da parte dell’artista.
Due considerazioni finali al culmine di questa storia poco esaltante. Le reazioni popolari così contrariate alla mostra di Carpi mostrano che non è attraverso questi eventi che si attirano i “lontani” a Dio. Se all’interno di un’iniziativa diocesana, i fedeli riscontrano uno spirito appiattito sulla mentalità del mondo, rimarranno comprensibilmente delusi di una tale minestra sciapa. Altro fatto significativo: una Chiesa che, nel rincorrere le (vere o presunte) “pecore smarrite” (cosa in sé giusta ed opportuna), snatura la propria identità e il proprio messaggio, è una Chiesa lontana dal sentire popolare e dallo spirito dei semplici e dei “piccoli”. E’ una Chiesa che – inquietante nemesi – finisce per diventare una Chiesa delle élite. Una Chiesa che, cercando di essere “in uscita” dalla propria (vera o presunta) autoreferenzialità, finisce banalmente per uscire dal ruolo che Dio le ha assegnato.