No, non è il governo “del popolo”

Draghi Senato 17/2/2021
Foto: Senato TV -YouTube

Ci sono momenti nella storia di un paese, in cui l’unità delle forze politiche diventa necessaria. Partiti e fazioni che precedentemente si erano avversati, mettono da parte ogni rivalità e iniziano a collaborare per il bene comune. In Italia, è avvenuto, in forme diverse, in due momenti storici. Il primo fu nel 1946-47 con l’Assemblea costituente: cattolici, liberali, socialisti e comunisti lavorarono insieme per la stesura di una nuova carta costituzionale che poneva le basi per la ricostruzione dalle macerie della guerra e del fascismo. Il secondo momento è stato negli anni ’70, con il compromesso storico, nato dall’intuizione di un grande statista cattolico, come Aldo Moro (1916-1978). In questo caso, forze politiche avverse, DC e PCI in primis, si univano per fronteggiare il comune nemico del terrorismo, di qualunque matrice esso fosse.

Il momento attuale, probabilmente, richiede un terzo grande sforzo di trasversalità. Da questo punto di vista, l’avvio di un nuovo governo sostenuto da circa il 90% della rappresentanza parlamentare contiene in sé aspetti positivi. Se però entriamo nel merito della composizione del nuovo esecutivo e dei suoi obiettivi di fondo, il nostro entusiasmo frena decisamente. È vero, vanno salutati con favore la nomina di Marta Cartabia a ministro della Giustizia e il ripristino del Ministero della Disabilità. La nuova guardasigilli, vicina a Comunione e Liberazione, è una convinta garantista ed è pro life e pro family. Da accademica e da presidente della Costituzionale, la Cartabia si è inoltre battuta per i diritti e la dignità dei detenuti.

Oltremodo deludente, al contrario, la scelta di confermare ministri come Roberto Speranza o Luciana Lamorgese. Il primo è il fautore della linea dura sul lockdown che, oltre a procurare notevoli danni al tessuto sociale ed economico, rappresenta una foglia di fico sul sostanziale fallimento del contrasto al Covid. Senza dimenticare le linee guida, con cui, la scorsa estate, Speranza ha facilitato le possibilità di abortire per mezzo della Ru486. Alla Larmorgese va imputato l’aumento esponenziale dell’immigrazione clandestina (a dispetto delle severissime restrizioni nella libertà di movimento) e la sciagurata decisione di ripristinare le diciture “genitore 1” e “genitore 2” sulle carte d’identità, in luogo di “padre” e “madre”.

Venendo al discorso di Mario Draghi in Senato, in occasione del voto di fiducia, le ombre, purtroppo, superano di gran lunga le luci. Per onestà intellettuale, non ometteremo i passaggi condividibili del programma di Draghi. Il neopresidente del Consiglio ha richiamato l’attenzione sulle crescenti disuguaglianze nel Paese, a partire da quelle generate, a livello educativo, dalla didattica a distanza. Sul fronte sanitario, è parso incoraggiante l’auspicio di Draghi a “rafforzare e ridisegnare la sanità territoriale, realizzando una forte rete di servizi di base”. Intuizioni corrette sullo sfondo di un’impostazione generale discutibile.

Il programma di Draghi per l’Italia è infatti profondamente eurocentrico e tecnocratico e non coglie le potenzialità che provengono dal territorio. Il nuovo premier sottovaluta fortemente le reali ricchezze dell’Italia e le leve in grado di farla ripartire. Sconforta, innanzitutto, la totale assenza di riferimenti alle famiglie e alle loro problematiche: bonus bebè e quoziente familiare non pervenuti. Draghi ha totalmente ignorato il vero dramma del Paese, ovvero il suo inverno demografico, che pure recentemente era stato denunciato da papa Francesco. Del Pontefice, Draghi ha preferito menzionare un riferimento all’ecologia. Il suo discorso, oltretutto, abbonda di riferimenti al riscaldamento globale e alla “transizione ecologica”, indicata come una delle riforme prioritarie per il Paese.

La ristrutturazione totale dell’“azienda Italia” pianificata da Draghi in nome della green economy, tuttavia, non tiene conto della grande risorsa rappresentata dalla piccola e media impresa, da sempre ossatura del sistema produttivo e volano dello sviluppo nazionale. Proprio questa rete di piccole aziende rischia di essere la più penalizzata nel restyling generale della nostra economia. Lo stesso Draghi ha detto: “Il governo dovrà proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche”. Il premier sembra quasi lasciare intendere che le imprese incapaci di affrontare da sole il cambiamento in chiave green e digitale potrebbero essere lasciate al loro destino.

Nel discorso del premier, la speranza per un futuro migliore sembra essere fortemente smorzata da una continua allusione a nuovi sacrifici, quasi come se la popolazione italiana non ne avesse mai affrontati. Si pensi ai riferimenti agli sprechi o alle “risorse scarse”. Un totem inespugnabile della narrativa draghiana è l’Europa. L’enfasi con cui il premier ha parlato di “euro irreversibile” o di ulteriori cessioni di “sovranità nazionale” a favore di una “sovranità condivisa”, appare piuttosto beffarda. Non tiene conto, in altre parole, delle notevoli difficoltà che il Paese ha incontrato nel suo cammino di integrazione europea. Al contrario, pressoché acriticamente, sembra vedere nella UE l’unica “stella polare” e l’unico spazio di realizzazione per la nostra comunità nazionale.

Si è molto parlato della formazione gesuita e keynesiana di Mario Draghi. C’è chi ha sottolineato entusiasticamente i suoi buoni rapporti col Papa, che, la scorsa estate, l’ha nominato membro della Pontificia Accademia per le Scienze Sociali. Dobbiamo però essere onesti fino in fondo: nel programma di Draghi, l’attenzione alle strutture e ai processi economici prevale notevolmente sugli aspetti umani e sullo sviluppo integrale della persona. Più che alla dottrina sociale della Chiesa, il programma di governo sembra trarre la sua ispirazione nelle fredde dinamiche tecnocratiche tanto care a Davos e a quella BCE che lo stesso Draghi ha guidato per otto anni (2011-2019). Non un governo del popolo, quindi, ma un governo delle élite, che, “whatever it takes”, antepone il destino della moneta a quella degli uomini. Se è vero che è dovere morale per un cristiano pregare per i propri governanti, lo sarà, a maggior ragione, la preghiera per i governanti poco cristianamente ispirati. Per il resto… ai posteri l’ardua sentenza.