Papa in Canada: penitenza e riconciliazione impossibili senza Cristo che redime

Papa in Canada piume da pellerossa
Foto: BBC - Youtube

Le ricorrenti immagini di papa Francesco in sedia a rotelle, durante la sua visita pastorale in Canada, conclusasi ieri, assurgono quasi a icona di una Chiesa, che, nella persona del suo capo terreno, soffre ed espia per i peccati dei suoi figli. Più volte, infatti, nei giorni scorsi, il Santo Padre ha qualificato il suo viaggio come un “pellegrinaggio penitenziale”. La principale ragione di questa atipica visita di cinque giorni è infatti nella richiesta di perdono che il successore di Pietro ha voluto rivolgere ai nativi americani canadesi, vittime di una spietata colonizzazione europea, di cui, in determinate circostanze, la Chiesa Cattolica si è resa complice.

Quali sono, nello specifico, le colpe della Chiesa in Canada, per le quali il Pontefice ha chiesto perdono? Il problema è esploso, in tutta la sua forza, nel 2015, quando la Commissione per la Verità e la Riconciliazione, promossa dal parlamento canadese, ha riconosciuto la perpetrazione, in particolare a cavallo tra il XIX e il XX secolo, di un “genocidio culturale” portato avanti nelle “scuole residenziali”, in cui ai piccoli indigeni veniva imposto con la forza il modello culturale europeo. Molte di queste scuole erano cattoliche. Sarebbero stati circa 6000 i bambini periti sotto il peso dei maltrattamenti, delle sevizie e delle terribili condizioni igieniche in cui versavano gli istituti scolastici dell’epoca. Una vergona epocale aggravata dalla scoperta di numerose fosse comuni.

Senza minimizzare in alcun modo le colpe delle scuole cattoliche coinvolte, vanno fatti, però, due doverosi distinguo. In primo luogo, il governo canadese, evidentemente alimentato da un implacabile pregiudizio anticlericale, ha sempre molto enfatizzato sulle colpe della Chiesa in questi tragici avvenimenti, come se i docenti delle scuole cattoliche del tempo fossero stati gli unici responsabili del tragico fenomeno. Al punto che è stato lo stesso premier canadese, Justin Trudeau, a sollecitare le scuse formali da parte di papa Francesco in persona. Scuse che sono arrivate per la prima volta lo scorso 1° aprile, allorquando il Papa ha ricevuto in Vaticano una delegazione di nativi americani canadesi. Il recentissimo viaggio pontificio ha completato l’opera, suggellando definitivamente l’atto di riconciliazione.

A conferma della peculiarità di questa visita, il Santo Padre ha voluto iniziare il suo itinerario proprio incontrando le popolazioni indigene First Nations, Métis e Inuit a Maskwacis, nella giornata di lunedì. Contravvenendo tutti i protocolli, l’incontro con le autorità politiche canadesi si è tenuto soltanto mercoledì, peraltro non nella capitale Ottawa ma a Citadelle de Quebéc. Francesco ha simbolicamente restituito due paia di mocassini, simbolo della sofferenza patita dagli allievi indigeni delle scuole residenziali. Ha espresso “dolore”, “indignazione” e “vergogna” ma ha anche auspicato un “futuro di giustizia, guarigione e riconciliazione”.

È in questo difficile processo di riavvicinamento tra culture diverse che emerge il vero spirito di questo “pellegrinaggio penitenziale”. Il Papa, dunque, chiede scusa per il male inflitto a una popolazione autoctona. Al tempo stesso, però elogia la “carità cristiana” di quei missionari e insegnanti che, in “non pochi casi esemplari”, seppero mostrare “dedizione per i bambini”. Che il ruolo della Chiesa in Canada – e qui veniamo al secondo distinguo – non sia stato soltanto negativo è emerso chiaramente dal secondo incontro avvenuto nella chiesa parrocchiale del Sacro Cuore ad Edmonton, un lodevole esempio di comunità multiculturale, composta da indigeni e non indigeni.

Una “guarigione” e una “riconciliazione”, ha lasciato intendere Francesco, che non possono avvenire in base a compromessi al ribasso, gettando il bambino assieme all’acqua sporca, ovvero rinnegando i buoni principi di una Chiesa che, in quella specifica circostanza, ha fallito nel suo obiettivo evangelizzatore. Al contrario, è soltanto in nome di Cristo che è possibile una riconciliazione. Quello stesso Cristo che, all’epoca, era stato così indegnamente strumentalizzato per compiere dei delitti terribili. “È Gesù che ci riconcilia fra di noi sulla croce, su quell’albero di vita, come amavano chiamarlo gli antichi cristiani. La croce, albero della vita”, ha detto il Papa. Si manifesta così, ancora una volta, l’estremo funambolico paradosso della Chiesa, casa di peccatori, eppure unico luogo in cui realizzano pienamente fraternità, perdono e salvezza.

Nel corso di questo non facile viaggio, Bergoglio ha messo in guarda dal fuoco incrociato dei due pericoli speculari che minacciano la fede oggi. Il primo è quello della fede vista come un’“armatura per difendersi dal mondo”. È probabilmente in questo spirito che, in passato, si sono manifestati i proselitismi e le inculturazioni forzate (come, per l’appunto, dimostra il caso canadese) che hanno pervertito il messaggio evangelizzatore. Dall’altro lato c’è la “secolarizzazione”, che ha lasciato l’uomo moderno non soltanto orfano di Dio, ma in balia del “pessimismo”, del “risentimento” e, più in generale, di uno “sguardo negativo” sulla vita, contrapposto allo sguardo buono, quello che “discerne la realtà”.

Dallo stesso lato, vi sono “le colonizzazioni ideologiche che contrastano la realtà dell’esistenza, soffocano il naturale attaccamento ai valori dei popoli, tentando di sradicarne le tradizioni, la storia e i legami religiosi”. Parlando alle autorità politiche canadesi, il Papa ha nuovamente deplorato quella “cancel culture” che “uniforma, rende tutto uguale, non tollera differenze e si concentra solo sul momento presente, sui bisogni e sui diritti degli individui, trascurando spesso i doveri nei riguardi dei più deboli e fragili: poveri, migranti, anziani, ammalati, nascituri”.

L’acero – evocato nella bandiera canadese – con le sue foglie autunnali così variopinte, è il simbolo della vera inclusività, all’insegna della convivenza pacifica e paritaria tra popoli e culture diverse, senza permettere che uno soverchi gli altri, colonizzando e distruggendo quanto di buono fa l’altro. Una convivenza in cui, il Vangelo è chiamato ad essere come un tizzone ardente abbastanza lontano da non bruciare l’umanità cui va incontro ma abbastanza vicino per illuminarla e scaldarla.