Perché molti cattolici non vanno più a votare?

Come tutti i sondaggi, va preso con le molle, in quanto più che fotografare la realtà, indica una tendenza generale. Il risultato della rilevazione Ipsos dello scorso 30 maggio è comunque da non sottovalutare: più della metà dei cattolici praticanti italiani non è andato a votare alle elezioni europee dello scorso 26 maggio. Di questa propensione a disertare le urne, ce n’eravamo accorti più di un anno fa, alla vigilia delle elezioni politiche. La nostra era solamente una percezione, che traeva spunto da una conoscenza generica, per quanto non del tutto superficiale, dei sentiments del mondo parrocchiale, oratoriale, associazionistico e legato ai movimenti.

La succitata ricerca non fa che confermare quelle intuizioni. I numeri, per quanto indicativi, parlano chiaro: dei cattolici praticanti italiani, il 32,7% avrebbe votato Lega, il 26,9% Partito Democratico, il 14,3% Movimento 5 Stelle, il 9,9% Forza Italia, il 6,1% Fratelli d’Italia. Il vero partito trionfatore, tuttavia, è quello dei non votanti, che ammontano al 52%.

Preso atto che, negli ultimi dieci-dodici anni, il declino della partecipazione al voto è stato inarrestabile (Politiche 2008: 80% di affluenza alle urne; Politiche 2013: 75%; Politiche 2018: 72%; Europee 2009: 66%; Europee 2014: 58%; Europee 2019: 56%), se prendiamo per buoni i dati di Ipsos, dovremmo quindi dedurre che i cattolici stanno contribuendo in modo determinante a questo declino.

Cosa è successo negli ultimi dieci anni? Le cose accadute sono moltissime ma i tempi non sono ancora maturi per trarne un’analisi definitiva dei vorticosi cambiamenti in atto. Siamo entrati in un nuovo pontificato, da molti giudicato “di rottura” e non sempre pienamente compreso dalla base dei fedeli. Anche la guida della Conferenza Episcopale Italiana ha conosciuto degli avvicendamenti significativi, che hanno visto un deciso cambio di approccio della Chiesa rispetto alla politica.

Da un lato abbiamo un Pontefice che, avanzando lungo i sentieri, spesso inesplorati, della radicalità evangelica, spariglia le carte in tavola, mettendo in crisi le vecchie categorie di “cattolici conservatori” e “cattolici progressisti”. Quando accoglie i senza tetto in Vaticano o tuona per i diritti dei migranti, Francesco è acclamato come “Papa di sinistra” (e questa è l’etichetta di comodo che certa stampa, di qualunque orientamento, gli ha affibbiato). Quando però ricorda che effettuare un aborto è come “affittare un sicario” e che l’indottrinamento gender a scuola è qualcosa di paragonabile alla propaganda dei regimi totalitari, allora, per molti, Bergoglio sta dicendo “qualcosa di destra”.

Le vecchie categorie novecentesche, però, non si amalgamano granché bene con questo “cambiamento d’epoca” in cui la Chiesa, non senza contraddizioni e difficoltà, si sta rivelando uno dei protagonisti di maggior spicco. Succede, allora, che i più accesi contestatori dell’attuale pontificato si collocano tra i cattolici e, segnatamente, tra i “cattolici conservatori” che magari rinfacciano al Papa l’apertura ai migranti o all’ambientalismo ma, in linea teorica, ne potrebbero appoggiare alcune posizioni contro lo strapotere della finanza globale. Al tempo stesso, c’è una sinistra che – soprattutto tra le sue élite – afferma di ammirare Francesco, salvo poi dimenticare i “poveri” (in particolare tra i propri elettori tradizionali) e tacere riguardo al traffico di esseri umani alimentato da un’immigrazione incontrollata.

A tutto ciò, va aggiunta la crisi (nel senso etimologico del termine di momento spartiacque) che sta vivendo la Chiesa italiana, in bilico tra riforma e purificazione da un lato, clericalismi duri a morire dall’altro. Una delle difficoltà più grandi che stanno incontrando l’episcopato e una parte del clero è nel riuscire ad essere “pastori con l’odore delle pecore”, per usare un’espressione dello stesso papa Francesco. Di conseguenza, è assolutamente illusorio pensare che, in questa fase storica, la Chiesa sia in grado di indirizzare in modo organico le scelte politiche dei cittadini, come succedeva, ad esempio, ai tempi della Democrazia Cristiana, o – in maniera diversa e meno esplicita – durante il quindicennio del cardinale Camillo Ruini alla guida della CEI. Così come lascia il tempo che trova immaginare di ricostruire una nuova stagione di popolarismo di ispirazione sturziana o un “grande centro” alternativo agli schieramenti attuali. Rimane il fatto che una parte notevole dei non votanti attuali sono cattolici praticanti e sono orientati verso un voto “moderato” o – più verosimilmente – si collocano fuori dagli schemi di comodo del momento, propendendo per un modello di laicato, più vicino alle istanze di rinnovamento auspicate da papa Francesco.

Tutto si può dire tranne che, anche in un’epoca di secolarizzazione galoppante, la classe politica sia indifferente al voto cattolico o non cerchi di ingraziarsi le gerarchie ecclesiali. Qualcuno mostra i rosari durante gli appuntamenti elettorali, pur esprimendo sull’immigrazione posizioni non gradite alla Chiesa. Altri svolgono i propri comizi all’interno dei luoghi di culto, pur propagandando da tempo immemore idee che di cristiano non hanno nulla. La confusione tra temi politici e temi religiosi è particolarmente diffusa e c’è chi vi sguazza con una disinvoltura disarmante.

Di politica, tra i cattolici, se ne parla in abbondanza e spesso a sproposito. È forse questo il motivo per il quale, molti di loro pur interessandosene, si tengono alla larga dalle urne. Tutto ciò, da un lato, può essere interpretato come un campanello d’allarme, ovvero come l’incapacità di incidere sulla sfera politica da parte di una categoria di cittadini che è ormai minoranza nella società. Visto in un’altra prospettiva, tuttavia, il fenomeno può anche portare in sé dei germi di speranza. Un distacco dei cattolici dalla politica potrebbe cioè rappresentare un desiderio di concentrarsi sulla propria identità civile e di essere pienamente coerenti con il proprio impegno sociale, senza compromesso alcuno con i machiavellismi dei partiti. Come nei tempi difficili, quali furono le persecuzioni del tardo Impero Romano o l’anticlericalismo dei primi governi italiani post-unitari, i cristiani sono chiamati ad essere in primo luogo “lievito per la società”, a stare nel mondo, senza essere del mondo, a dare il buon esempio a chi cristiano non è. Al tempo stesso, la chiamata è anche ad essere più coesi e a sfuggire dalle logiche divisorie e di potere che la politica spesso impone, per emergere in un momento successivo come un soggetto autonomo e credibile. Quest’epoca “aventiniana”, però, non potrà durare in eterno.